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Agosto 2005
25 agosto 2005
VITA MEDIA
La vita media si è allungata. La vita media si è allungata, nonostante siamo circondati da decine, centinaia, migliaia di morti per cancro ai polmoni. La vita media si è allungata, e siamo stati noi ad allungarcela, ma abbiamo ottenuto il risultato riducendo i tempi della nostra stessa vita. Come?
Siamo abituati a consumare tutto, ed il più in fretta possibile, a partire da un momento rilassante come può essere il bagno quotidiano. Fino a qualche decennio fa, per lavarci ci adagiavamo in una vasca colma d’acqua calda e di aromi, e ci lasciavamo cullare dal dolce tepore e dal rilassamento dei muscoli. Oggi abbiamo talmente tanta fretta di vivere che il bagno ce lo facciamo in piedi, e per questo abbiamo inventato le docce. Utili, è vero e innegabile, ma sono più rilassanti di una vasca piena d’acqua calda? Tutti sull’attenti a fare il bagno.
La musica, poi, è sempre stata un’ottima compagna di momenti di pace, quiete e tranquillità. Una volta c’erano i compositori, i musicisti, poi sono spuntati i gruppi e i cantanti. Sono cominciati ad uscire album invece di sinfonie, e fin qui tutto bene. Ma adesso, abbiamo talmente tanta sete di bere all’amaro calice della musica che non aspettiamo più la venuta di un disco di un gruppo, non aspettiamo più che venga composto un album con le sue dieci, dodici canzoni da ascoltare ed amare una per una. No, ora aspettiamo ed esaltiamo i “singoli”. Una misera canzone radiofonica, dal ritornello il più immediato possibile, e magari se ha anche più di quattro note scartiamo addirittura l’ultima, così è ancora più facile da ricordare. E addio al relax e all’amore per la musica.
E le cene a casa o al ristorante, che fine hanno fatto? Sono state sostituite da aperitivi al bar, aperitivi che a volte si dilungano fino alle nove, aperitivi che invece di aprirti lo stomaco in attesa della cena come il nome starebbe ad indicare, prendono il posto del pasto vero e proprio. E allora tutti giù a sfamarci con tartine, nocciolite, carotine, olivine e patatine. Tanto, la cena è una perdita di tempo inutile, in questo modo si unisce il pomeriggio con la sera, e non viene sprecato nemmeno un secondo.
Potrei continuare con esempi fino all’alba di domani mattina. Potrei accumulare esempio su esempio, situazione su situazione, caso su caso. Ma per cosa, in fondo? La vita media si è allungata, e noi dobbiamo essere riconoscenti alla Scienza e alla Tecnica che l’hanno reso possibile. L’unica cosa che mi lascia perplesso è un dubbio. Un solo, ultimo dubbio. Il dubbio che, in realtà, ci siamo allungati la vita eliminando i momenti che la rendevano veramente piacevole, e per questo siamo ormai tutti sull’orlo dell’ennesima crisi di nervi. Ma ne sarà valsa davvero la pena?
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21 agosto 2005
GIORNO TRE – 22.43
L’oasi è finita. Da domani, si ritorna alla vita normale, si ritorna al caos quotidiano. Da domani, niente più riposo della mente e relax dello spirito. Da domani, ricomincerò a subire gli attacchi dell’esistenza dai quali mi ero separato temporaneamente in queste ore. Non vorrei, ma mi accorgo adesso di quanto sia inevitabile. È la vita che continua. È la vita che scorre via. Chissà quanto passerà prima che io torni qui e mi ritrovi a fare confronti con me stesso come è avvenuto in questi tre giorni. Chissà quante foglie cadranno dall’albero della mia vita prima che mi accorga che qualcosa di vero, in tutto quello che ho scritto, forse esiste davvero. Chissà.
Fino ad allora, lasciatemi conservare il ricordo di queste tre notti, di questi ventinove totem che mi hanno accompagnato fino alla fine, senza lasciarmi mai solo. Senza di voi, sarebbe stato completamente diverso. Completamente differente. Migliore o peggiore, non sta a me dirlo. Vi amo, totem.
Arrivederci, coscienza. Chissà tra quanto ci ritroveremo a parlare a quattr’occhi, io e te. Arrivederci, oblio, tra poco arriverò da te, concedimi ancora cinque minuti. Addio, pietra rocciosa che sorvegli quest’oasi di pace, pace per il mio spirito. Continua, ti prego, a sorvegliare questo paese, questo lago, queste montagne, questa strada. La via per arrivare a te è lunga, ma ne vale sempre la pena. Arrivederci, non addio, pietra rocciosa. Alla prossima notte insieme. Alla prossima vita insieme. Alla prossima, e basta...
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21 agosto 2005
GIORNO TRE – 20.19
Alzo lo sguardo, e sono tutte lì davanti a me. Beck’s, Budweiser, Heineken. Poi Moretti Doppio Malto, Bulldog, Warsteiner, Hirter Privat Pils, Budweiser, Loburg, Hoegaarden, Beck’s, Bacardi Breezer al Pompelmo Rosa. Ancora Heineken, Eku 28, Warsteiner, Moretti Doppio Malto, Tennent’s Super, Franziskaner, Paulaner, Bacardi Breezer al Pompelmo Rosa. E infine Warsteiner, Trap 40, Leffe, Budweiser, Moretti Doppio Malto, Desperados, Beck’s, Heineken. Un ultimo Bacardi Breezer al Pompelmo Rosa e poi Morfeo mi attende, con il suo tenue abbraccio.
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21 agosto 2005
GIORNO TRE – 18.04
È triste quando si avvicina la fine. Sembra quasi che il cielo si sia rannuvolato e non voglia più far filtrare raggi di sole. Sembra quasi che debba iniziare a piovere da un momento all’altro, da quanto è cupo e nero il cielo. Ma così non è. Così proprio non è.
Quando si avvicina la fine di qualcosa, non si deve piangere per quello che è appena terminato e forse non tornerà più, ma essere felici e volgere lo sguardo al futuro radioso che ci aspetta. Tutto quello che ci è capitato, nel bene e nel male, ci è capitato per far si che noi si sia maturati fino a questo punto, per far si che noi si prenda in futuro le decisioni che ci spetterà prendere, senza avere dubbi o comunque avendone molti meno.
È il cammino percorso fino a questo punto della nostra vita che ci rende vivi, che ci fa veramente essere felici di tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle, perché così doveva essere. Ci sono indumenti fatti apposta per essere adagiati sulle spalle di una persona, ed il passato è uno di questi. Il passato è un ottimo indumento per coprirci e ripararci dal freddo invernale, è grazie a lui che riusciamo a tirare avanti giorno dopo giorno, imparando dai nostri errori, ed evitandoci di ripetere gli stessi per la terza volta. Il passato è l’indumento migliore per le nostre fragili ossa, e non dovremmo mai farne a meno. Mai.
Sorridete, quando si avvicina la fine di qualcosa. È la fine di qualcosa, ma l’inizio di qualcosa d’altro. E come tutte le cose, è sempre meglio presentarsi sorridenti. Sempre meglio. Sorridenti. Ricordatelo. Ricordatemelo.
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21 agosto 2005
GIORNO TRE – 13.27
Ho abbandonato le certezze che mi accompagnano le vene, ho abbandonato le sicurezze che mi bagnano le tempia, ho abbandonato la sete che mi consola in queste ore di solitario eremitaggio. Orrore davanti agli occhi, orrore nelle orecchie, urla di paura e passione, urla di divertimento e terrore, orrore per una vita vissuta da testimone passivo e non attore protagonista.
No, non credo, mai. Lasciatemi dunque a tutto quello che mi circonda, a tutto quello che mi sono meritato, a tutto questo e niente meno, a tutto questo e niente più. Non più. Verde è la comunione tra un angelo caduto e i suoi discepoli, verde è il sapore di un grammo di nuvola appassita dal tempo, dal vento, dal canto.
Alzati, luna, sorgi. Urla per me tutto il tuo disprezzo per quelle visioni dimenticate e votate da tutti quei partigiani marcescenti. Alzati, luna, sorgi. È a te che tutti i corvi alzano le loro grida, è a te che tutti i lupi volgono le loro poesie, è a te che tutti i vermi dedicano le loro spire. Alzati, luna, sorgi. Non dimenticare che senza di te il cielo sarebbe sempre più nero, con il solo pallore di quelle stelle lontane che arrivano a noi quando sono già morte, seppellite, sepolte. Alzati, luna, sorgi. Solo di te ci possiamo fidare, noi miseri mortali in questa terra di bestemmie e finte sicurezze, in questa terra di viltà e virtù, di fette di salame unte come i profeti di quel dio benedetto che tutti invocano ma nessuno ascolta, di quel dio maledetto che nessuno prega ma tutti adorano. Abbandonatemi a me stesso, vi prego. Abbandonatemi a me stesso, vi scongiuro, e lasciatemi per tre giorni senza conoscenze di quello che succede attorno a me e attorno a voi. Solo allora saprò rispondere ad ogni vostra domanda. Solo allora saprò ascoltare finalmente, di nuovo, i lamenti strazianti di un bambino morente.
Vi amo, secondi vuoti che stanno per scomparire nel futuro immanente. Vi amo, secondi vuoti che colmo istante dopo istante con la mia vuota vita piena di inconsistenti verità. Vi amo, secondi vuoti che passano inesorabilmente nonostante la pioggia continui a cadere sul mio animo bestiale. Mi amate, voi?
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21 agosto 2005
GIORNO TRE – 13.03
Sguardo proiettato verso il futuro, e sorriso abbozzato. Sorriso abbozzato, come se stessi pensando a chissà quale verità divina, che presto o tardi sarebbe piovuta dal cielo per portarmi gioie o dolori, felicità o tristezza. Tristezza per le occasioni perdute, per gli appuntamenti mancati, per le melodie che continuano a suonare per le mie orecchie sorde, incapaci di ascoltare questa musica celeste. Musica celeste, che come una parola ripetuta a fine ed inizio frase scompare subito dalla memoria, mentre invece è il vero collante della vita stessa, e come tale della morte. Morte di noia, sorte di gioia, morte di dolore, sorte incolore, morte dannata, sorte d’annata, morte amica e sorta formica, statemi lontane ma abbracciatemi con le vostre calde illusioni, perché io ho oramai perduto le mie, io ho oramai adottato le vostre. Le vostre miserie, le vostre allusioni, le vostre grida, i miei bisbigli, le vostre canzoni, i miei totem, le vostre preghiere ululate al vento all’ora di pranzo in un giornata di pioggia. Pioggia di sensazioni perdute, come se tutto il mondo stesse andando a fuoco e nessuno avesse un bicchiere d’acqua per spegnerlo e ricacciare quelle fiamme dell’inferno dal paradiso da cui provengono, dal cielo che le ha mandate, dal dio che le ha inventate in un giorno di pioggia mentre intere famiglie ululavano le loro preghiere al vento, all’aria, alla misericordia dimenticata, alla misericordia mendicata da tutti. Tutti insieme, tutti in coro, tutti pronti, cantiamo quindi quest’inno alle volontà spezzate, al futuro improvviso, ai piccoli cambiamenti della nostra vita. Vita che è sempre uguale a se stessa e, non appena ci pone davanti ad un bivio che potrebbe movimentare le nostre sorti, non vede altro che la nostra codardia e la nostra mancanza d’orgoglio, la nostra viltà, la nostra autocompassione, la nostra mancanza di virtù. Virtù che, lasciatemelo almeno accennare o voi che tutto sapete e tutti criticate, piove dal cielo come in un giorno di sole, e svanisce nella nebbia serale quando anche i corvi hanno abbandonato quei rami degli alberi che tutto sanno del nostro passaggio su questa terra, che tutto sanno del nostro passaggio in questa miseranda vita. Vita, morte, miracoli, è tutto predestinato, è tutto predisposto da un dio malato e addomesticato da inutili credenze, ma sta alla nostra viltà e alla nostra codardia mandare all’aria tutti quei piani divini che ci vorrebbero predoni della nostra stessa vita, che ci vorrebbero padroni del destino altrui ma non del nostro.
Addio, convenzioni autoimposte che ci vincolano a tutto quello che deve essere ancora scritto nel grande libro del destino. Addio, convenzioni liturgiche che non fanno altro che segnare ulteriormente il nostro cammino verso una morte certa. Addio a voi, inutili paletti di legno che delimitate il confine di quella terra che è il nostro futuro, che è il nostro passato, che è il nostro incedere su questa terra. È a voi che penso la mattina, quando mi alzo dal mio torpore quotidiano. È a voi che penso la sera, quando sono ebbro dalla giornata appena passata, appena finita, appena consumata nel tenue grigiore di un tempo tiranno. È a voi che penso a pranzo, quando annuisco a tutto quello che mi bisbigliano i miei ventidue totem personali, i miei amici d’infanzia. È a voi che penso la notte, quando il sonno arriva e mi porta quel consiglio che non oso ascoltare, quel consiglio che non voglio accettare, quel consiglio che bisbiglio al primo coniglio rosa che mi incrocia lo sguardo al mattino, quando mi alzo dal torpore.
Ho paura di voi, maledette voci che sento quando cerco la felicità. Ho paura di voi, accordi in fa minore che suonate ancora per me dopo tutti questi anni di fuga dalla vita. Lasciatemi stare. Lasciatemi a queste inutili credenze, a questi stupidi pensieri, a quello sguardo proiettato verso il futuro, con un sorriso abbozzato. È il sorriso di un bambino, ed è per lui che riesco a continuare a vivere. È il mio sorriso, ed è per me che riesco a continuare a pensare.
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21 agosto 2005
GIORNO TRE – 10.52
Sonno. Sonno ristoratore. Sonno che porta consiglio. Sonno che fa sognare. Sonno amico. Sonno fragile. Sonno benedetto. Sonno lungo. Sonno dimenticato dalle persone tese. Sonno perpetuo. Sonno.
Ti sei mai chiesto, sonno, da dove arriva tutta la tua potenza, tutta la tua passione, tutta la tua sicurezza? Da dove attingi per portare consiglio, dove ti appoggi quando tutto si fa buio anche per te? Te lo sei mai chiesto, sonno?
Dormi anche tu, sonno? Hai mai chiuso gli occhi anche solo per un istante, anche solo per una frazione di secondo, per un misero battere di ciglia di un bambino perduto, per un battere d’ali di un falco lontano? Lo hai mai fatto? E ti sei chiesto perché?
Sonno, sei indispensabile per tutte le persone, sei l’ancora di salvezza che ci separa dal mondo perpetuo della follia. Sonno, sei la nostra boa nel mare agitato della realtà quotidiana, sei la nostra personale guardia del corpo. E ti sei chiesto perché?
Cosa hai fatto per diventare tale, sonno? Avevi qualche possibilità di scelta? O anche tu, come tutti noi, sei sballottato da una parta all’altra della nostra vita senza avere quasi la possibilità di scegliere la direzione dove volgere i nostri passi? Sei anche tu incatenato all’oblio come se fossi un cucciolo di cane abbandonato e poi sedotto dalle lussurie di un canile bastardo e compiacente?
Sonno. Sonno magico. In te si fondono tutte le fiabe che abbiamo ascoltato da bambini, unite agli orrori che vediamo ogni sera di fronte ad un televisore passivo come tu non sei, come tu non sarai mai. In te si racchiudono tutte le buone emozioni di una vita perduta, in te si raccolgono tutti i ricordi che abbiamo volutamente o meno cancellato dalla nostra memoria, sentore finale di un qualcosa che ci stava avvolgendo e non ci avrebbe più lasciato.
Sonno, ti sei mai chiesto quale sia il senso di tutto questo? Cosa ti spinga a farti portatore di un fardello così pesante? Sei condannato a rivivere ogni notte tutto quello che noi misere anime dannate non abbiamo il coraggio di ammettere a noi stesse. Ma noi ti vogliamo bene, per questo. Ne vuoi altrettanto tu a noi?
A domani mattina, sonno. Ora stanno svanendo i ricordi di tutto quello che c’è stato stanotte, tra noi due. Ora i fumi di un semplice caffè stanno facendo svanire tutta la tua passione, tutto il tuo amore, tutte le tue verità. A domani, sonno.
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20 agosto 2005
GIORNO DUE – 23.16
Giunge finalmente l’ora del riposo, e la marmotta scivola silenziosamente nella sua tana. Emette per l’ultima volta quel suo richiamo acuto, quasi un ultrasuono, per salutare i fiumi e i monti, i laghi e i prati suoi amici. Saluta tutti per l’ultima volta, e se ne va a dormire. L’indomani, lo sa già, sarà di nuovo presente su tutte le cartoline delle alpi. È un lavoro duro e difficile, ma qualcuno lo deve pur fare. E allora, perché non lei?
A domani, turisti dell’inconscio e delle cartoline perdute.
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20 agosto 2005
GIORNO DUE – 17.42
Ballate, su queste dolci note. Ballate su questi dolci melodie. Ballate, questi dolci accordi. Ballate finchè avete fiato in corpo, su questi ricordi del domani. Ne vale la pena. Davvero.
Immaginate dieci, venti, cento libri accatastati uno di fianco all’altro, impolverati, ingialliti, dimenticati, su di uno scaffale in uno scantinato dove la luce non arriverà mai. Immaginate dieci, cento, mille vermi che strisciano sottoterra, in direzioni differenti, senza avere la minima possibilità di incontrarsi l’un l’altro, senza avere la possibilità di scambiarsi una fugace parola nell’intero corso della loro vita. Immaginate dieci, cento, diecimila persone che cercano invano il paradiso affannandosi, dannandosi, maledicendosi a vicenda. Ne vale la pena? Davvero?
Chiudete gli occhi e spremete quel limone che è la vostra più intima convinzione. L’amaro succo che ne uscirà non sarà altro che il rimpianto di tutti i vostri sogni infranti, e la liberazione più profonda. L’amaro succo che ne uscirà si spargerà su tutte le vostre ferite e vi farà urlare, imprecare, bestemmiare, ma prima o poi passerà. E poi, suvvia. Ne vale la pena. Davvero.
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20 agosto 2005
GIORNO DUE – 13.58
Sono ferma. Immobile.
Sono una pietra che ha visto tanti inverni, e nonostante gli anni che passano, continuo a restare ferma, immobile, come un sasso. Su di me sono passati innumerevoli piedi, scarpe di ragazzi e ragazze che salivano sulla mia cima soltanto per dominare il mondo per cinque minuti, senza sapere che è invece il mondo a dominare il loro destino. Ragazzi e ragazze che si sono illusi di essere i padroni di quella pietra che sono io, si sono illusi di avere l’intero universo ai loro piedi quando invece, ahimè, ai loro piedi c’era soltanto un po’ di licheni e qualche lucertola spaurita dalle grida e dagli umori giovanili.
Sono ferma. Immobile.
Sono una tendina che lascia passare oltre di se soltanto lo sguardo di un maniaco, una persona che guarda alla vita con invidia e con disperazione. Lascio passare il suo sguardo, e trattengo invece lontano la vista delle persone che passano, ignare, lungo la strada, che scorrono via e lasciano dietro di sé soltanto il rumore dell’ultimo modello di scarpe e lo sguardo omicida del maniaco che proteggo. Se soltanto potessi gridare. Se soltanto potessi parlare. Spargerei ai quattro venti tutto quello che so, e non proteggerei più, con i miei ricami fatti a mano, quello sguardo voglioso e lascivo che sbava non appena vede qualcosa di fuori dall’ordinario, o di semplicemente normale ma irraggiungibile per lui.
Sono ferma. Immobile.
Sono una nuvola che giace nel più profondo azzurro del cielo, senza avere la speranza che si sollevi prima o poi quell’alito di vento che la porterà lontano, via da questi monti e da questo paesaggio che tanto può stare a cuore ad una persona malata di vita, ma altrettanto può essere odiata da me, misera nuvola che non ho nemmeno la speranza di assumere le sembianze di un drago leggendario grazie al soffio di un qualche vento, per far sognare ad occhi aperti un bambino che volga verso di me il suo sguardo innocente. Ho perso la mia più grande battaglia, quella con la pioggia, e ora sono soltanto una macchia bianca nel firmamento celeste di un giorno senza temporali.
Sono ferma. Immobile.
Sono la coscienza di un ragazzino che sale sopra di una pietra sulle rive di un lago. Sono la coscienza di un maniaco che segue con il suo sguardo i passi di chiunque cammini lungo la via. Sono la coscienza di un bambino che vede draghi là dove ci sono soltanto nuvole, e sogna felice.
Sono ferma. Immobile.
E ciononostante continuo a disperarmi. Quale sarà il mio destino? Quale sarà la via che prenderanno i miei passi, al termine di questa seconda giornata di ascesi temporale? O sacri totem, ditemelo voi...
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20 agosto 2005
GIORNO DUE – 10.37
Guardo il sole già alto, e sorrido.
Sento il silenzio che mi circonda, mi avvolge tra le sue calde spire, e ripenso alla giornata di ieri. Ho rivisto persone che non rivedevo da anni, e ricevuto sorrisi che non mi sarei mai aspettato. Ho trovato un grammo di pace nel paniere dell’estate, e non ne sono stato sopraffatto. Bello. Inizio adesso a programmare la giornata di oggi, solo per capire che devo interrompermi qui, adesso, prima di commettere un errore. Grave. Succederà quello che dovrà succedere, adesso non ci voglio pensare. Non voglio iniziare a vincolarmi tutto il giorno solo per avere un maledetto piano da seguire, come se fossi in una prigione per cui non si può far altro che aspettare i rintocchi del tempo che fugge via con la speranza mai ascoltata di superare anche solo di cinque metri quelle sbarre di acciaio che ci separano dalla vita reale, dalla vita quotidiana, dalla vita degli altri.
Si, perché è proprio la vita degli altri quella che noi maggiormente desideriamo, per tutta la vita. Invidia, rancore, malinconia, rabbia, apparenza, tutto ci smuove per riuscire a raggiungere i livelli di vita di qualcun altro, di un dio minore che noi abbiamo eletto come tale e che ci sembra irraggiungibile, ma a cui noi puntiamo ugualmente. Vogliamo questo, desideriamo quello, ardentemente speriamo di ottenere quell’altro. E per cosa, poi? Solo per dire di averlo raggiunto, per farcene vanto, e poi sceglierci un’altra meta da raggiungere, un’altra linea di traguardo da superare, un altro maledetto traguardo. Maledetto. Piango sorridendo per questa condizione del mio animo. Per l’ennesima volta, stavo confondendo le mie sensazioni con quello che credo sia l’intero genere umano. Do per scontato che quello che si muove nel mio cuore si agiti anche negli spiriti di tutta l’umanità, come a cercare una scusa per le mie azioni, una scusa per i miei pensieri, una scusa per le mie parole. Ma ecco la verità, eccola qua.
Non sono tutti uguali a me, per fortuna. Ci sono persone che non hanno bisogno di ritrovarsi ogni tanto con se stessi per rendersi conto degli errori che stavano commettendo e smettere di commetterli. Ci sono persone che riescono a fare la cosa giusta al momento giusto senza pensarci due volte, senza avere patemi d’animo che li accompagnano ogni singola ora del giorno. Ci sono persone che sbagliano senza avere la coscienza di sbagliare, e solo per questo la loro vita è infinitamente migliore della mia. Dio, che cosa sono diventato? Dio, che cosa vorrei diventare?
Vorrei avere la coscienza a posto, vorrei godere del potere divino del perdono, quando in realtà so benissimo che per certi pensieri non esiste e non esisterà mai una redenzione necessaria e sufficiente a farmi dimenticare tutto, a farmi dimenticare da dio e dall’uomo. Vorrei avere la coscienza a posto, ma so benissimo che non bastano quattro note di pianoforte soffuso a mondarmi lo spirito, quando il sole sta tramontando e stormi di gabbiani ritornano a casa con il cibo per i loro piccoli affamati. Non esiste redenzione per un animo che sa di peccare, e continuerà imperterrito a farlo, nella buona e nella cattiva sorte. Non esiste e non deve esistere redenzione per un dannato di vita che spera soltanto di cambiare in meglio e non ottiene altro che misere variazioni in peggio.
Guardo il sole già alto, e sorrido.
Sorrido per me, sorrido per te, sorrido per tutto quello che sono. È bello sapere di essere quello che si è, conoscere quello che si è rischiato di diventare e quello che non si diventerà mai. Ci si sente quasi superiori, a volte, con queste piccole gocce di conoscenza. Ci si sente quasi come dei, a volte, con questi piccoli barlumi di potere incondizionato sul proprio animo, senza cercare inutilmente l’appoggio di vuoti totem di vetro che potrebbero accompagnare l’esistenza di qualunque essere umano, quando invece tutto quello che cambierà sarà soltanto il nostro futuro.
Invidia la vita, o essere umano che tanto credi di avere ottenuto dai tuoi giorni. Invidia la vita, o essere umano che hai raggiunto la pace interiore a costo di chissà quale omicidio volontario. Invidia la vita, o essere umano dalla memoria tanto corta, così corta da averti fatto dimenticare il tuo stesso nome e la tua vera e propria essenza. Chi sei, cosa fai, dove vai. Non sono più domande, per il tuo corpo agitato. Non sono più domande, per come le intendevano gli antichi filosofi. Non sono più domande, ma sono diventate le tue risposte a tutto quello che non avrai mai il coraggio di chiedere, a tutto quello che non avrai mai la speranza di ottenere.
Ho la netta sensazione che il sonno stia cercando di cogliere di soppiatto, per l’ennesima volta, l’indomito brillare degli occhi di un bambino che neanche conosco e che vorrei fosse mio. Pensieri paterni. Ma per tutta la vita non potrò mai trovare la risposta che cerco. Non esiste soluzione a quell’enigma giurassico che è la mia vita, la tua coscienza, la nostra verità. Ed ecco che, ancora una volta, mi accorgo di fare confusione tra quello che sento e quello che immagino sentano tutti gli altri. È il segnale di fine corsa. È la bandierina abbassata sul traguardo di una pagina bianca colmata di inutili e fugaci impressioni. Non mi rimane altro da fare che alzare le mie dita e fuggire lontano. Lontano da me. Lontano da te. Lontano da queste inutili e fugaci impressioni.
Guardo il sole già alto, e sorrido.
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19 agosto 2005
GIORNO UNO – 23.33
Buonanotte, dodicesimo totem.
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19 agosto 2005
GIORNO UNO – 23.17
L’oblio si sta avvicinando, e con esso le speranze di un giorno perduto tra ricordi e convenzioni, tra filamenti d’argento che ci legano inesorabilmente al nostro passato e tenue primule appassite che ci ricordano il prospero futuro. Cosa possiamo aspettarci da noi stessi se non la più splendida ed inconsistente esistenza?
Ci siamo perduti in un giardino coperto di giacinti rossi, simbolo di fertilità e passione, simbolo di dolore e resurrezione, come a dimostrare agli atri, alle galassie, alle stesse anime dell’universo che esiste qualcosa di superiore che ci accompagnerà sempre, ovunque andremo, qualunque cosa accadrà.
Sono passati dieci anni da quei giorni, e niente sembra essere cambiato. Facce nuove, ma stesse situazioni. Vedo piedi salire sicuri su rocce che una volta erano nostre, e sorrido. Vedo volti salutare ammiccando, e ricordo che ci sono passato anch’io, da quelle strade, su quei posti, sopra quell’inesorabile scorrere del fiume. Non si fermerà mai, lui. Chissà quanti piedi hanno camminato sopra di lui, o lungo le sue sponde. Mi piacerebbe sentire i suoi racconti, e consolarlo per tutte le lacrime che versa quotidianamente. Sono e saranno sempre più di tutte le lacrime che potrà mai versare un continente in tutta la sua vita. È da invidiare, la vita di un fiume? Non lo so. Non so nemmeno se lo vorrei scoprire. Ma ci sto pensando, in questo momento, e soffro per lui. Non so perché e nemmeno se sia giusto, ma soffro per lui. O forse no. Soffro per me. Solo che non ho il coraggio di ammetterlo e ho quindi bisogno di metafore che cammuffino il mio stato d’animo, che asciughino ogni oncia di pianto io possa aver mai versato per giungere fino a queste conclusioni. Dove sarò domani? Cosa mi accadrà?
Oggi ho incontrato il mio passato, ho parlato con lui, abbiamo passeggiato lungo le rive del lago e abbiamo ricordato gli anni passati che non ritorneranno. È stato bello, in fondo. Oggi ho incontrato il mio passato, ed è stato come guardare in faccia tutto quello che ero e che sono diventato. Quello che avrei potuto essere e quello che potrei ancora diventare. Dipende tutto da me.
A domani, mio passato. A domani, miei sogni. A domani, volti che continueranno a vagare per queste strade, nonostante l’implacabile scorrere degli anni, dei secoli, dei millenni.
Lascio che l’occhio cada un’ultima volta sui totem di vetro, e sorrido. I loro consigli, oggi, sono stati preziosi. Chissà se lo saranno ancora domani. Chissà se la loro forza continuerà ad esistere nel tempo. Ma non mi importa. Ora sono loro, i miei undici totem di vetro, a conoscere la via. Mi devo solo fidare…
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19 agosto 2005
GIORNO UNO – 16.29
Io sono il male.
Venite a me, discepoli della notte che aspirate alla gioia in terra, perché io saprò appagare ogni vostro più recondito desiderio in questa vita terrena. Venite a me, o discepoli dalla fede incrollabile, perché ogni vostra richiesta diverrà realtà, e ogni vostro capriccio non sarà altro che una misera briciola di pane nel gran banchetto che allestirò in vostro onore.
Sono stato chiamato in tanti modi, dai tempi dei tempi. Chi mi ha chiamato Satana, chi Lucifero, chi Belzebù, chi non ha neppure saputo trovare un nome che simboleggiasse degnamente la mia esistenza. Potete in ogni caso chiamarmi come più vi aggrada, perché questo non cambierà affatto la mia essenza.
Io sono il male.
Potete non credermi e nascondervi sotto quel cuscino che sono le vostre illusioni. Potete tranquillamente non credermi e farvi beffe di me, che tanto saprò colpirvi quando meno ve lo aspettate. Potete non credermi e allora mi sarà semplicemente più facile colpirvi alle spalle e lasciarvi a terra inermi, senza più nessun credo a cui appoggiarvi, quando finalmente verrà la vostra ora.
Per me sono stati sacrificati capretti, agnelli, animali di ogni sorta e dimensione, per me sono stati eretti altari ed edificati templi. Per me sono stati pronunciati riti impronunciabili e sono state emesse parole irripetibili.
Io sono il male.
Ho lasciato che credeste, poco per volta, di avermi sconfitto. Questa è stata la mia più grande vittoria. Ora sono in mezzo a voi, e non potete più fare nulla per sconfiggermi e mandarmi via. Avete perso. Ed io ho vinto. Ho raggiunto quel paradiso terrestre che vi era stato donato e che avete rinnegato con una fretta incredibile, come se poteste raggiungere qualcosa d’altro, qualcosa di meglio. E avete perso.
Io sono stato per anni, per secoli, per millenni, ad osservarvi e soltanto sussurrarvi all’orecchio qualche consiglio, di tanto in tanto. Al resto avete pensato caparbiamente da soli. E alla fine ho trionfato. Ho vinto sugli elementi. Ho vinto sugli animali. Ho vinto su di voi. Al costo di aspettare millenni, secoli, anni, ho vinto su di voi. Vi ho ribaltati come se foste fuscelli, vi ho convinto di essere il bene quando invece non sono altro che il male più assoluto, più libero, più incondizionato, più totale.
Io sono il male.
Ho lasciato nel cammino della storia manoscritti vergati con il sangue di giovani vergini e profeti promettenti, solo perché cadessero nelle mani sbagliate e finalmente si facesse la mia volontà. Ho lasciato nel cammino della storia poesie di una bellezza indicibile solo perché venissero cantate da aedi maledetti che risvegliassero le coscienze della gente normale, in modo tale che non si proclamasse più come tale ma credesse di essere speciale. Tutti sono speciali. Ed io ho vinto.
Ora non esiste uomo sulla faccia della terra che non sarebbe disposto ad uccidere il proprio fratello per un misero tornaconto personale, e questo solo grazie alle mie facoltà, solo grazie al fatto che ho saputo aspettare e coltivare con calma il mio raccolto, dopo aver sparso con così gran cura tutti i miei piccoli semi. Ora vedo il male in ogni angolo del mondo, e non posso far altro che compiacermene perdutamente. Ora mi sento una madre gravida che abbia appena partorito un’intera progenie di figli, e si aspetti finalmente i frutti del loro operato. Non devo fare altro che aspettare ancora qualche tempo. Ho vinto la battaglia finale. Prima ero io, il male, ma ora non più. Non più.
Ora siete voi il male.
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19 agosto 2005
GIORNO UNO – 12.30
Verde come il cielo, rosso come il mare, blu come l’amore. Che cosa significa dignità per un cuore che non ha mai conosciuto il valore dell’attesa? Che cosa significa valore per uno spirito che non ha mai saputo cosa fosse la dignità in un’offesa?
Scorrono via, lentamente, tutte quelle illusioni che si sono fatte strada in questo mare di inconsistenza che è la vita di tutti i giorni, quando si crede che ogni ora sia uguale alla precedente e si scopre con sorpresa e disappunto che non è affatto vero, che la monotonia esiste soltanto nel nostro cervello e ogni singolo secondo è sempre differente dal precedente, e come tale vale la pena di essere vissuto fino in fondo. Non esistono due fiocchi di neve identici, e allo stesso modo non devono esistere due secondi nell’esistenza di ogni persona che risultino, alla venuta della prossima apocalisse, uguali e indistinguibili.
Ogni uomo deve essere affamato di diversità, e ogni donna deve essere assetata di conoscenza. Cosa altrimenti ci dovrebbe spingere verso una sorte che non ci è amica? L’amore per la vita? La codardia per le novità? La fame e con essa sua sorella la sete? Brucio di noia, e lascio che il mio stomaco si sfami di promesse mai mantenute e sorprese inaspettate. Vedo tutto intorno a me come se fossi circondato da fiori spontanei, funghi velenosi e alberi bruciati dal fuoco implacabile. Mi tolgo la maschera, e finalmente sorrido. Il tempo sta finalmente cambiando, e non può che migliorare.
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19 agosto 2005
GIORNO UNO – 09.46
Ho riaperto la finestra sulla mia anima, e osservo quanto vi passa attraverso. È come se avessi appena passato una notte di temporale e mi fossi alzato con le ossa tutte tremolanti, con la convinzione che qualche “peggio” sia passato ma il “bello” debba ancora arrivare. In quale fase della mia vita io mi trovi, è difficile da dire. È difficile anche da pensarlo, in effetti, se proprio ci penso bene.
Osservo davanti ai miei occhi tre totem di vetro che mi osservano, mi scrutano, mi giudicano, con i loro occhi maledetti e dannati, con le loro anime vuote e dorate, con i loro spiriti perenni e dimenticati. Quanta verità vi è nascosta dietro tutte le loro finte promesse! Quanta verità è celata dietro quei cinque minuti di gioia che ti promettono e quasi mai mantengono! Quanta verità diventa palese non appena trovi il coraggio di guardarli dritti in faccia, di fissare i tuoi occhi dentro i loro!
Lascio che la musica del mio animo mi avvolga, sempre di più, sempre più in profondo, ed il silenzio esterno prenda il sopravvento su tutti i rumori di una casa disabitata e abbandonata da anni. Quella casa è il mio cuore, quella casa è la mia anima, quella casa è il mio spirito. Sono diventato arido, avaro, egoista ed opportunista. Forse lo sono sempre stato, ma non me ne ero mai reso conto.
Assaggio il piacere di aver ritrovato la convinzione di quello che sto scrivendo e pensando, ma dentro di me so perfettamente che non vi è niente di vero o convinto in quanto detto finora, se non quei tre totem che continuano a fissarmi, maligni e benigni allo stesso tempo, con i loro maledetti occhi di vetro ed il cappello sulle ventitre. Vi voglio quasi bene, in fondo, e so di meritarmi l’inferno sceso in terra che ricoprirà ogni mio passo da qui all’eternità. Odo colpi di pioggia sul vetro della mia anima, e lascio che le gocce scivolino via. Si forma un tenue rivoletto di armonie celesti sull’asfalto sottostante, ed io lascio cadere le chiavi di casa dalle mie mani senza più forza, sapendo benissimo che, oramai, non vi rientrerò più da solo, senza l’aiuto di qualche anima benedetta. Odo rintocchi di vento sulle persiane di una cascina abbandonata e distrutta dagli elementi nel corso degli ultimi ventisette anni, e non so più che cosa pensare. Non so più a chi devo credere. Non so più che cosa scrivere…
…e allora lascio che siano i sussurri di quei tre totem a guidarmi, a prendermi per mano e portarmi lontano, chissà dove, non importa. Dopotutto, quello che conta è avere un cammino da seguire. Trovare una strada da imboccare. Avere una meta da raggiungere. E qualche buon amico a cui aprire il tuo cuore. Dopotutto, sto soltanto chiedendo il paradiso.
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16 agosto 2005
DENUNCIA PT. 2
Lasciate che continui a parlare dello stato della musica in Italia, ed in Liguria nello specifico. Lasciate che continui ad urlare al vento quello che è sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno se ne renda conto. Io stesso ho dovuto lasciare che qualcuno mi obbligasse a sbattervi la faccia, per accorgermene e conoscere la verità. Ma ora finalmente vedo con occhi più trasparenti. Ora mi illudo di sapere qualcosa in più, e voglio cercare di comunicarlo.
Ho già accennato in precedenza i problemi a cui vanno incontro i gestori dei locali che vogliono far suonare dei gruppi dal vivo. Orari sempre più proibitivi, licenze, diritti SIAE. Un musicista che voglia proporre la propria musica dal vivo si deve battere con tutti questi problemi, ma non solo. Non è finita qui. Finora ho tralasciato un argomento di importanza fondamentale. Finora ho affrontato il problema dal punto di vista del locale, ed è giunto il momento di guardare i musicisti. È giunto il momento di far notare un altro, enorme e mai citato problema. La venuta dei DJ.
Sia chiaro fin da subito che non sto parlando dei paladini della musica elettronica, che sono poi dei veri e propri musicisti, ma di semplici dj magari improvvisati che, con una console davanti o un comune impianto stereo decente, allietano l’atmosfera musicale di un locale diffondendo per l’aere canzoni vecchie e nuove, e più o meno famose. Ad un proprietario di un locale, un dj costa decisamente meno di un gruppo che suoni dal vivo. Occupa meno spazio, non sporca, non propone pezzi propri che quindi rischierebbero di non soddisfare la clientela. In poche parole, un dj sembrerebbe essere il classico “uovo di colombo”: tutti se ne vanno soddisfatti. Gestore, dj, avventori. Il gestore è contento perché spende tanto quanto spenderebbe per pagare un gruppo, ma ha meno gente per il locale che avanza pretese assurde (il gruppo), e allo stesso tempo ottiene il tutto esaurito. Il dj è contento perché viene pagato bene per mettere dei semplici dischi, lui che magari non sa nemmeno usare decentemente una console. Il pubblico è contento perché ascolta, in un locale pubblico, una canzone di un artista che conosce bene senza che qualche gruppo sconosciuto gliela rovini nel caso capiti in una serata “tributo a XYZ”. Tutti sono contenti. Il problema, allora dove sta?
Il problema in realtà è enorme, ed è tutto per coloro che della musica fanno o vorrebbero fare la propria professione. Con l’aumentare di situazioni come quelle descritte sopra, un musicista avrà sempre meno luoghi dove proporre e suonare la propria musica, e sarà sempre visto come una persona che chiede tanto per quello che propone. Verrà sempre paragonato ad un ragazzetto che “mette su” dei dischi ottenendo molto di più.
Ma nessuno si fermerà mai a riflettere alle ore che il musicista ha dedicato, nel corso della sua vita, ad imparare il proprio strumento. Nessuno si fermerà a pensare che per suonare alle 21 in un locale, un gruppo composto da quattro musicisti dovrà iniziare a preparare i propri strumenti alle 17, trasportarli a proprie spese fino a destinazione, preparare gli strumenti in un palco che quasi mai soddisferà le proprie esigenze, elemosinare una cena e, dopo tutto questo, invece di potersi finalmente riposare, dovrà salire su un palco ancora al massimo delle proprie potenzialità per suonare al meglio delle proprie capacità, e questo perché il pubblico non perdona mai un errore quando si suona dal vivo. Nessuno penserà che una cover sia stata suonata meglio del pezzo originale che “ha sempre e comunque il suo fascino”. Nessuno capirà mai tutti gli sforzi che deve fare un musicista, i salti mortali che deve compiere per essere degnamente pagato per il servizio che sta offrendo. Un concerto di circa due ore è preceduto da almeno tre ore di preparativi. E poi, finite le note dell’ultima canzone, bisogna mettere tutto a posto. Riportare tutto a casa. E questi sforzi, pensiamoci un attimo, quando mai vengono giustamente ricompensati? Quando si è alle prime armi, spesso si suona gratis con la motivazione di farsi conoscere. Ma poi? Cosa succede poi?
La realtà è che la musica viene sempre più concepita come un prodotto finale ottenibile tramite una catena di montaggio, e non come il risultato dell’ispirazione di un artista che cerca di trasmettere le proprie idee, emozioni e pensieri, attraverso accordi di settima o diminuiti. Si sta cercando insomma di volgarizzare e industrializzare la musica. Ma la musica è ispirazione, è sudore e fatica, è improvvisazione, è tutto questo e molto di più. Non può sparire. Non deve.
Un gruppo dal vivo, per quanto sia ancora alle prime armi, vale più di dieci dj, vale più di cento impianti stereo lasciati quasi in balia di se stessi. Un gruppo dal vivo è la dimostrazione che la musica è ancora viva, e che non scomparirà. Al prossimo concerto a cui assisterete, guardate la stanchezza fisica negli occhi dei musicisti che suoneranno davanti a voi. Andate a stringere loro la mano a fine serata. Magari non sarà con quello, che convinceranno il gestore del locale a farli suonare un’altra volta. Ma chissà. Chi può saperlo? A volte basta così poco...
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15 agosto 2005
FERRAGOSTO
Aspettavo questo giorno da un anno. Aspettavo questo giorno da quando, esattamente 365 notti fa, scoprii per la prima volta la bellezza di Genova nel breve dipanarsi di queste ore.
Genova, il giorno di ferragosto, è come uno scrigno che contiene tesori. Pochi osano avventurarvisi, pochi sono coloro che hanno resistito alla tentazione di fuggire via, magari anche solo per poche ore, dalle mura di cemento che li circondano in tutte i giorni della loro vita. Cammino tra questi pochi fortunati e coraggiosi e mi rendo conto di una cosa. Genova, il 15 agosto, non appartiene più ai genovesi.
Le strade sono deserte e silenziose. Sento in lontananza grida di gabbiani, e vedo piccioni volare a bassa quota in un territorio che normalmente è riservato alle macchine ed ai motorini che inesorabilmente sfrecciano via. Ma oggi, di tutte queste macchine e motorini non v’è nemmeno l’ombra. Le strade di Genova sono proprietà dei piccioni e di quei numeri arancioni lampeggianti che compaiono sulla facciata degli autobus, gli unici mezzi che si vedono circolare dopo le 14. Ho quasi la sensazione di vivere in un universo parallelo, se penso che fino a dieci giorni fa queste stesse strade erano solcate da una fiumana di tifosi inferociti che bloccavano il traffico e causavano non pochi disagi a tutti i pendolari che dovevano tornare a casa dopo una dura giornata di lavoro. Oggi, queste larghe strade sono un territorio nuovo, e mi ritrovo ad immaginare che potrei tranquillamente camminarvi al centro senza alcun pericolo. I semafori continuano la loro monotona vita, ma nessuno li guarda in faccia, nessuno avverte il loro eterno cambiare colore, nessuno li rispetta per quello che dovrebbero valere. Nessuno.
Genova oggi non appartiene ai genovesi, dicevo. Si, perché gli unici volti che si incontrano per le strade in questa calda giornata di agosto appartengono a persone straniere. Sui marciapiedi afosi e bollenti vedo proprietari di ristoranti cinesi, praticamente gli unici servizi rimasti aperti, ed enormi zaini sulle spalle di turisti che chiedono indicazioni alla prima persona che incontrano. Spiego velocemente ad un tedesco come arrivare a Palazzo S. Giorgio, e gli lascio la mia cartina dei vicoli che avevo casualmente nella borsa. Mi ringrazia apertamente, e lo saluto guardandolo andare via, con la speranza che il mio gesto di gentilezza possa spazzare via dalla mente di almeno uno straniero il luogo comune sulla chiusura del popolo ligure.
Volgo i miei passi verso il porto antico, e lì la città appare meno deserta, e sempre più invasa dai turisti. Si allontana anche l’ora di pranzo, evidentemente, e allora tutti in giro a guardare il bigo, la sfera di Renzo Piano, l’acquario. Il cielo è limpidissimo, e si specchia sulle onde di un mare piatto e azzurro come non lo vedevo da qualche settimana, oramai. Mi accorgo che cerco di camminare all’ombra perché, non appena finisco sotto i raggi del sole per neanche cinque secondi, mi sembra di esservi esposto da almeno mezz’ora, da quanto faccia caldo. Ammiro sorpreso alcune facciate di palazzi finalmente rimesse a nuovo che non avevo mai avuto la fortuna di notare, nel caos del traffico quotidiano. Osservo ogni singolo lampione e mi rendo conto di come in alcune vie vi siano ancora i cavi per il filobus, e mi ritrovo a pensare che non so nemmeno più da quanto io non vedo un filobus per le vie di Genova. O forse ci sono, e sono io che non me ne accorgo. Eccola, la superficialità con la quale osservo la città in cui vivo.
I vicoli sono percorsi da più poliziotti di quanti ne ricordi in una normale giornata di ottobre. Strano. I negozi sono quasi tutti chiusi, e sulle serrande accuratamente tirate giù spiccano cartelli bianchi con sopra scritte variopinte del tipo “chiuso per ferie”, “riapriamo il 28 agosto”, “buone vacanze anche a voi”, “governo ladro”, “domani aperto”. Anche le grosse catene come Ricordi, FNAC, Mondadori e Feltrinelli sono chiuse. Serrate. Blindate. McDonald, invece, miracolosamente resiste. Uno su due, almeno.
Alla fine, dopo circa tre ore e mezza di passeggio per questo deserto cittadino, decido che è giunta l’ora di tornare a casa, e mi dirigo verso la stazione di Brignole. Entro, e rimango sorpreso dall’enorme quantità di persone che vi sono dentro. Come se tutti i turisti si siano dati appuntamento oggi, a quest’ora, proprio qui davanti all’edicola. Incontro casualmente un amico, che mi svela l’arcano: stanno andando tutti a Koln, in Germania, per la giornata della gioventù, mi sembra di aver capito, e l’incontro con il papa.
Stanco, aspetto l’arrivo del treno, e guardo per l’ultima volta le facciate di alcuni palazzi. Da domani, ne sono quasi sicuro, ricomincerò a non guardarle più...
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14 agosto 2005
MAELSTROM
...ancora un sorso. Ancora uno. Lascio che le bollicine svaniscano nell’etere dell’incoscienza e tutto scompaia su queste note che infondono gioia di vivere, e paura di soffrire. Offro tutto me stesso alla più profonda essenza di me e scopro che il nero è il colore dell’anima, è il colore dell’assenza delle vita, e il colore dell’amore stesso e più incondizionato.
Odio tutto quello che sto vedendo e allo stesso tempo imparando da ciò che mi viene incontro ogni giorno di più, con lo scorrere di una singola ora nel misero spartito del viaggio verso la passione. Ho ricordato i suoni di una vita passata e mi sono immaginato una faretra di semplice ma incondizionato metallo, da abbracciare e da allontanare, da amare e detestare, da ammirare.
Ho ritrovato la misura di tutto ciò che è risata e invidia, orgoglio e paura, applauso e timore. Ho ritrovato tutto me stesso, e mi sono spaventato dalle grida che emettevo, dalla gioia che esprimevo, dalla vita che ammiravo. Ho ritrovato la penna, e ho cominciato a scrivere. Per me. Per te. Per i Maelstrom...
...che ci hanno regalato emozioni concepite da Iron Maiden, Angra, Stratovarius, Sonata Artica, Europe, Whitesnake, e molto di più. Ci hanno regalato emozioni di una serata trascorsa tra amici, a cantare canzoni che ti toccano il cuore e ti bruciano l’anima, canzoni che ti appaiono nitide in mente non appena le senti e ti lasciano un solco profondo nella memoria non appena sfumano via. Ci hanno regalato canzoni composte da loro che non fanno altro che dimostrare che c’è sempre da guadagnare a seguire il cammino già percorso da altri, perché bisogna imparare dal passato, bisogna capire quanto detto da altri prima di riuscire a muovere i nostri primi passi. E loro, i Maelstrom, hanno dimostrato di aver imparato bene le lezioni che i maestri prima di loro hanno avuto l’onore di impartire a noi mortali. Il metallo, quello puro. Genuino. Il metallo, quello vero. Candido.
Sono saliti sul palco e hanno rovesciato un locale, il Nota bene Live di Rapallo, come se fosse un vecchio guanto sgualcito dal tempo. Hanno preso possesso del piccolo palco e hanno dimostrato tutto il loro valore dopo neanche lo spazio di una canzone, dopo neanche il tempo di finire sorseggiando una buona birra chiara. Sono saliti sul palco e hanno iniziato a far circolare la magia di una serata all’insegna di una musica che potrà anche non piacere a tutti, ma che vale la pena di essere conosciuta. Magari disprezzata. Ma comunque ascoltata. Perché quelle note, quelle melodie, quei cori urlati dal cuore di tutti i presenti, non possono non lasciare qualcosa, nel più profondo di ciascuno di noi. Non possono lasciare indifferenti. Neanche un muro, resterebbe tale.
Lasciatemi quindi tornare con la mente a quelle note, a quelle melodie, a quei cori. Lasciate che mi scorrano nella mente ancora una volta. Lasciate che finisca questa dolce bevanda a base di tastiera, voce, chitarra, basso e batteria. Lasciatemi a lei. Ancora un sorso. Ancora uno...
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12 agosto 2005
JANET WEISS BLUE BAND
Avevo già avuto la fortuna di sentirli dal vivo, durante le selezioni al LogoLoco per partecipare al concerto del Primo Maggio a Roma, ed ascoltare il loro demo di due pezzi non ha fatto altro che rinfrescarmi la memoria e confermare quanto avevo già provato all’epoca. I Janet Weiss blue band sono un gruppo ligure dedito al beat, se vogliamo descrivere dubito e brevemente la loro proposta musicale. Se vogliamo restringere ancora di più il campo, potremmo paragonarli subito ai Blue Beaters di Giuliano Palma, e chiuderla lì. Ma, in fondo, non sarebbe giusto.
Non sarebbe giusto perché una canzone come “smoke rings”, anche se dalle sonorità già sentite e che rimanda ad altri tempi, è veramente affascinante. Sarà quell’unione di sax e trombe, sarà il fraseggio composito di cui si compongono strofa e ritornello, sarà anche la voce pulita e semplice al punto giusto, saranno tutti questi fattori messi insieme o magari sarà semplicemente il caldo afoso di questi giorni, ma quando ti entra in testa non ne vuole più sapere di uscire. La dolce melodia composta da strumenti classici e fiati inizia a cullarti dolcemente e ti prende per mano, portandoti lontano verse terre dimenticate e promettendoti quell’eldorado che nessuno osa più sognare.
Mi desto dal torpore e mi accorgo che è partita la successiva “lovely reggae”. Il titolo è già un ottimo indizio di cosa aspettarsi da questo brano: la cadenza è veramente jamaicana, e quel ritornello è sinceramente ipnotico. Ottimo l’uso delle tastiere, che si alternano alla perfezione incastrandosi tra un soffio di tromba e un respiro di sax. Parole sussurrate e ritmi che riportano alla memoria spiagge incantate sotto un sole oceanico, al dolce riparo dell’ombra regalata da una palma solitaria.
Accidenti, non volevo. Ho detto quella parola, e non avrei dovuto. Oramai è troppo tardi per cancellarla, ma voi che leggete non fermatevi alle apparenze. I Janet Weiss blue band sono più di qualche battito nel blu. Sono più di qualche palma.
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7 agosto 2005
GUERRIERO
Sei crollato dal cielo, guerriero dal nulla venuto ed al niente votato, sei caduto dal nulla ed in esso ti sei votato all’amore per le illusioni perdute che ti accompagneranno fino a che il fiato ti resterà in corpo.
Sei crollato dal cielo e sei finito in mezzo a noi, guerriero dei tempi passati che non ritorneranno mai fino allo spegnersi delle credenze che si sono svegliate nel tuo inconscio.
Sei crollato dal cielo e ti abbiamo abbracciato con benevolenza, perché sei l’esempio dei sogni che non ci abbandoneranno mai, sei la somma di tutti i nostri desideri e allo stesso tempo sei il ricordo di ciò che saremo domani.
Sei crollato dal cielo, o guerriero caduto, ed abbiamo cantato per te fino allo sfinimento, fino all’apatia, fino all’amore più profondo.
Addio, guerriero crollato, noi saremo sempre al tuo fianco, ma tu ricordati di piangere per noi.
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5 agosto 2005
SPLINDEPARÌ LIVE
Mi infrango dolcemente sugli scogli. Mi infrango e sorrido. Lascio che la risacca scompaia dolcemente, ed il sale si illuda ancora una volta di potersi sciogliere completamente. Tanto, domani sarà ancora lì, al suo posto. Domani sarà ancora una parte integrante di me, e allieterà tutti quei bagnanti sulle spiagge di Rapallo che si vedranno i nudi corpi ricoperti di alghe e sale fino all’arrivo sotto una doccia gelata. Ma adesso, fino allo spuntare di un nuovo sole, posso permettermi di osservare quello che succede oltre i miei confini, là dove non potrò mai arrivare, sulla terraferma.
Stasera, 27 luglio 2005, il comune di Rapallo in collaborazione con il locale Nota bene Live ha organizzato un concerto sulla passeggiata, ed io ho l’onore di avere un posto in prima fila. Ci sono anche gruppi di pescetti che sono venuti apposta dalla vicina Santa Margherita per assistere. E attorno alle 22, la musica inizia a diffondersi per l’aria e giunge fino a qui, fino a noi, dove inizia a danzare sul lieve ondeggiare delle acque marine.
Loro sono gli Splindeparì. Cinque ragazzi, ciascuno con il proprio strumento. Propongono, da quanto riesco a sentire, una sorta di rock melodico con spunti progressivi che mi ricordano immediatamente la Premiata Forneria Marconi. Il pubblico li accoglie calorosamente, acclama ogni loro canzone e si ritrova a ballare e cantare con loro quando propongono cover di artisti più famosi. De Andrè, Litfiba, U2, Bon Jovi, Blur, Camerini, Elio e le Storie Tese, Van Halen, Vasco, OMD, sono solo alcuni dei nomi che i pescetti mi urlano nelle orecchie non appena partono le rispettive canzoni. Che poi, se proprio devo essere sincero, mi sono sempre chiesto come facciano i pesci ad urlare, loro che non sanno nemmeno parlare e a cui puoi confidare tranquillamente i tuoi segreti più intimi, tanto hanno sempre l’acqua in bocca… ma questa è un’altra storia.
Gli Splindeparì propongono parecchie cover, tutte sotto la forma di medley in modo da essere legate l’una all’altra, al punto che non si sa mai dove comincino e dove vogliano arrivare. Ma è sui pezzi originali che mi emoziono maggiormente. Dicono di essersi ispirati alle atmosfere di poeti quali Baudelaire, e non posso dar loro torto: suoni tristi ma caldi, sonorità decadenti, fugaci impressioni di malessere si spartiscono il campo con improvvise esplosioni di curiosità artistica e sonora. Brani quali “Triade”, “Cristalli” e “Solo questo” sembrano proprio delle ballate concepite da musicisti che conoscono perfettamente il proprio strumento e sappiano esattamente quello che vogliono trasmettere. Emozioni arpeggiate e correttamente ritmate, con una voce calda che accompagna e mai sovrasta il percorso musicale di quegli strumenti che creano una vera oasi di suoni e parole. Cori che si alternano a melodiche linee di basso e arcani suoni di tastiera, fino a sollevare gli animi dei presenti ad un livello di ammirazione sempre più alto, sempre più intimo, sempre più vero. Continuano con “Amnesia” e “Stea”, fino ad arrivare a quella “Sotto mentite spoglie” che squarcia il velo più decadente della loro musica per offrire raggi di sole in questa calda serata estiva.
Dopo due ore piene di concerto, i pescetti mi salutano e si dirigono verso le loro onde natie. Io, rimasto qui, osservo le facce serene e felici di musicisti e pubblico, che si ringraziano a vicenda, si salutano, si danno appuntamento al prossimo concerto. Mi piacerebbe poter dire che ci sarò anche io. Mi piacerebbe ma, ahimè, ho anche io i miei limiti, e non posso andare al di là di questa spiaggia. Peccato. Vorrà dire che mi farò raccontare il prossimo concerto degli Splindeparì dai gabbiani, o da chi per loro. Saranno forse più loquaci dei pescetti, ma almeno mi terranno aggiornato sulle sorti di questo gran gruppo rivierasco.
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05/08: My BEST 10 ALBUMS
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03/01: Professioni
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