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21 Agosto 2005
GIORNO TRE – 13.03
Sguardo proiettato verso il futuro, e sorriso abbozzato. Sorriso abbozzato, come se stessi pensando a chissà quale verità divina, che presto o tardi sarebbe piovuta dal cielo per portarmi gioie o dolori, felicità o tristezza. Tristezza per le occasioni perdute, per gli appuntamenti mancati, per le melodie che continuano a suonare per le mie orecchie sorde, incapaci di ascoltare questa musica celeste. Musica celeste, che come una parola ripetuta a fine ed inizio frase scompare subito dalla memoria, mentre invece è il vero collante della vita stessa, e come tale della morte. Morte di noia, sorte di gioia, morte di dolore, sorte incolore, morte dannata, sorte d’annata, morte amica e sorta formica, statemi lontane ma abbracciatemi con le vostre calde illusioni, perché io ho oramai perduto le mie, io ho oramai adottato le vostre. Le vostre miserie, le vostre allusioni, le vostre grida, i miei bisbigli, le vostre canzoni, i miei totem, le vostre preghiere ululate al vento all’ora di pranzo in un giornata di pioggia. Pioggia di sensazioni perdute, come se tutto il mondo stesse andando a fuoco e nessuno avesse un bicchiere d’acqua per spegnerlo e ricacciare quelle fiamme dell’inferno dal paradiso da cui provengono, dal cielo che le ha mandate, dal dio che le ha inventate in un giorno di pioggia mentre intere famiglie ululavano le loro preghiere al vento, all’aria, alla misericordia dimenticata, alla misericordia mendicata da tutti. Tutti insieme, tutti in coro, tutti pronti, cantiamo quindi quest’inno alle volontà spezzate, al futuro improvviso, ai piccoli cambiamenti della nostra vita. Vita che è sempre uguale a se stessa e, non appena ci pone davanti ad un bivio che potrebbe movimentare le nostre sorti, non vede altro che la nostra codardia e la nostra mancanza d’orgoglio, la nostra viltà, la nostra autocompassione, la nostra mancanza di virtù. Virtù che, lasciatemelo almeno accennare o voi che tutto sapete e tutti criticate, piove dal cielo come in un giorno di sole, e svanisce nella nebbia serale quando anche i corvi hanno abbandonato quei rami degli alberi che tutto sanno del nostro passaggio su questa terra, che tutto sanno del nostro passaggio in questa miseranda vita. Vita, morte, miracoli, è tutto predestinato, è tutto predisposto da un dio malato e addomesticato da inutili credenze, ma sta alla nostra viltà e alla nostra codardia mandare all’aria tutti quei piani divini che ci vorrebbero predoni della nostra stessa vita, che ci vorrebbero padroni del destino altrui ma non del nostro.
Addio, convenzioni autoimposte che ci vincolano a tutto quello che deve essere ancora scritto nel grande libro del destino. Addio, convenzioni liturgiche che non fanno altro che segnare ulteriormente il nostro cammino verso una morte certa. Addio a voi, inutili paletti di legno che delimitate il confine di quella terra che è il nostro futuro, che è il nostro passato, che è il nostro incedere su questa terra. È a voi che penso la mattina, quando mi alzo dal mio torpore quotidiano. È a voi che penso la sera, quando sono ebbro dalla giornata appena passata, appena finita, appena consumata nel tenue grigiore di un tempo tiranno. È a voi che penso a pranzo, quando annuisco a tutto quello che mi bisbigliano i miei ventidue totem personali, i miei amici d’infanzia. È a voi che penso la notte, quando il sonno arriva e mi porta quel consiglio che non oso ascoltare, quel consiglio che non voglio accettare, quel consiglio che bisbiglio al primo coniglio rosa che mi incrocia lo sguardo al mattino, quando mi alzo dal torpore.
Ho paura di voi, maledette voci che sento quando cerco la felicità. Ho paura di voi, accordi in fa minore che suonate ancora per me dopo tutti questi anni di fuga dalla vita. Lasciatemi stare. Lasciatemi a queste inutili credenze, a questi stupidi pensieri, a quello sguardo proiettato verso il futuro, con un sorriso abbozzato. È il sorriso di un bambino, ed è per lui che riesco a continuare a vivere. È il mio sorriso, ed è per me che riesco a continuare a pensare.
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