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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
17 Febbraio 2008
TERRAZZO

Abbasso la testa ed il mio sguardo si perde nella strada sottostante. Sotto i miei piedi, sei piani mi separano da quel parco che fiorisce al centro di piazza Palermo. Sotto i miei piedi, assisto a un istante giornaliero di anime vaganti.
C'è un ragazzo che si appoggia ad un albero. Sembra confuso, mezzo agitato, chissà. In ansia per qualcosa, in attesa di qualcuno. Lo vedo camminare avanti ed indietro proprio come se stesse aspettando qualcosa che non sembra arrivare. Si ferma, poi fa due passi, si ferma ancora. Si appoggia all'albero, nuovamente, accarezzandolo con la mano sinistra come se volesse graffiarlo con la sua gentilezza. Guarda verso l'alto, ma non mi vede. Il suo sguardo si perde tra i rami dell'albero, e la luce che filtra tra essi. All'improvviso, ha uno scatto. Infila rapidamente la mano in tasca, e ne estrae un cellulare. Scappa via. Forse ha trovato quello che stava cercando, forse ha avuto la sua risposta.
Poco più in là che una madre con un passeggino. Lo muove avanti ed indietro, ritmicamente, probabilmente cantando qualcosa. Cioè, sono io che immagino che canti qualcosa, perchè la distanza d'aria mi impedisce di arrivare con l'orecchio fin laggiù. Il suo movimento ritmico è lento e ripetitivo, cadenzato, tranquillo. Ogni tanto si ferma per qualche secondo, poi ricomincia con quel movimento. Con quel dondolare. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Con l'occhio sempre tranquillo, e con quello che mi sembra una sorta di sorriso agli angoli della bocca, un sorriso di quelli appena abbozzati, quasi nascosti. Ma presente.
Davanti a lei sono appena passati due uomini in giacca e cravatta, abbigliamento insolito per essere una domenica pomeriggio. Passo veloce, testa rivolta l'uno verso l'altro mentre parlavano animatamente di qualcosa che ovviamente ignoro. Ma erano agitati, si capiva chiaramente da come gesticolavano, da come enfatizzavano ogni parola con un movimento scattante della mano, o dell'intero braccio. Hanno attraversato la mia fascia visiva in pochi secondi, lasciando dietro di loro una scia di agitazione e movimento. La madre ha accelerato leggermente i suoi movimenti ritmici, e loro non la hanno nemmeno degnata di uno sguardo. Come se non ci fosse. Come se non esistesse. Come se l'unica cosa importante fosse il loro parlare, il loro cravattare.
Vengo distratto per un attimo da un gabbiano, che taglia l'aria proprio davanti ai miei occhi. Ha le ali allargate, e sta planando verso il cornicione del palazzo di fronte. E' bianco, completamente bianco, e compie una sorta di movimenti a spirale nel suo avvicinarsi alla meta. Come se esitasse. Forse anche lui è indeciso su dove vuole andare, alla fine. Non faccio in tempo a formulare questo pensiero, a fissarlo su carta, che improvvisamente il gabbiamo si rialza in volo, e si allontana. Definitivamente. Verso la luce del sole, dove non riesco a guardare perchè mi lacrimano gli occhi.
Seduti su di un'altra panchina, poco più in là, c'è una coppia di vecchietti, di cui uno sta leggendo il giornale. Sono vicini tra loro, quel grado di vicinanza che comporta una sicura conoscenza, eppure è come se si stessero ignorando del tutto. Come se si fossero già detti tutto quello che potevano raccontarsi, e ora ciascuno è perso nelle cantine dei propri pensieri. Quello a destra, più basso e con la giacca marrone, legge un giornale. L'altro, più alto e scuro in volto, sta guardando il vuoto. O forse sta fissando qualcosa che non riesco a vedere, da questo terrazzo. Chissà.
Mi sento rilassato. Ho il cervello e la mente leggeri, riposati, in pace. Lascio che i miei occhi si poggino su questo o su quel dettaglio, cercando di immaginare ogni volta che cosa stia pensando l'oggetto delle mie attenzioni, cercando di immaginare quale possa essere la sua vita, e come sia arrivato fin lì, oggi, a quest'ora. Quale motivo lo abbia spinto fino a quel parco. In quella piazza. Sotto di me. Cerco di immaginare la vita di tutte quelle persone lì, proprio sotto i miei piedi, e mi sale da dentro, poco per volta, una tristezza ancestrale. Dapprima appena accennata, che quasi non riesco a percepire. Poi si fa sempre più grossa, sempre più imponente, sempre più invasiva. Sempre più triste. E devo chiudere gli occhi.
Forse dovrei smetterla di stare su questo terrazzo, a guardare la vita che scorre ai miei piedi. Forse dovrei scendere questi sei piani che mi separano dalla vita, smettendo di osservarla soltanto, convincendomi di stare bene con me stesso, assicurandomi da solo con pacche sulle spalle. Forse dovrei vivere, invece che restare su questo terrazzo a raccontare storie che nessuno leggerà mai. Forse dovrei vivere, invece di ridere in faccia al tempo. Forse dovrei vivere. E basta.

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