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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
10 Giugno 2000
ALICE COOPER – BRUTAL PLANET

Acido. Così si presentava fin dall'inizio l'ennesimo capolavoro di Alice Cooper alle orecchie del Gatto Fenriz. "Brutal planet" era infatti un vero e proprio passo avanti fatto da Vincent Furnier (l'alter ego della vecchia Alice), in quanto andava a incastrarsi benissimo nell'attuale panorama metal statunitense, spazzando letteralmente via nomi quali Marylin Manson o addirittura Korn. Non esistevano più rivali, e i successori ritenuti tali sparivano immediatamente come nebbia al sole.
Il valore della melodia tuttavia non era andato perso, e Alice sapeva bene come farne uso. Era così che nascevano brani come la titletrack e "wicked young man", occhieggianti alla tecnologia ma allo stesso tempo senza mai farsi prendere la mano da eccessive divagazioni o sperimentazioni che avrebbero rovinato l'appeal finale dell'intero disco.
L'album era un concept sulla pericolosità della tecnologia nella vita dell'uomo di fine millennio, e mai forse si era sentita un'atmosfera così opprimente in un lavoro di Alice Cooper, soprattutto per chi fosse abituato ai suoi vecchi cavalli di battaglia quali "school's out" e "i'm eighteen" o alla ruffianità delle più recenti "poison" e "hey stoopid". "Brutal planet" era la maturità di un artista che non temeva di dire la sua e dimostrava anche di divertirsi facendolo, arrivando addirittura ad autocelebrarsi nei brani "gimme" e "it's the little thing".
Un disco vario e allo stesso tempo uniforme, come dimostravano la quasi punkeggiante "sanctuary", l'epica "pick up the bones" dall'inizio lento ed evocativo che poi scoppiava nel ritornello, la ritmata "pessy-mystic" e la conclusiva pseudo cantilenante "cold machines", tutte ugualmente tetre e oscure nello stile del concept di sottofondo, ma che non riuscivano proprio a stancare il Gatto Fenriz.
Un discorso a parte lo meritava "take it like a woman", la pecora bianca in un mondo di pecore nere come la pece. Una ballata triste e contemporaneamente disillusa, che poteva benissimo essere il seguito perfetto della classica "only women bleed" comparsa sull'album "Welcome to my nightmare" del 1975, il primo disco solista di Alice Cooper.
Prodotto da Bob Marlette ed il solito Bob Ezrin, "Brutal planet" si candidava ad essere uno dei MUST del 2000. Non più semplice rock, e nemmeno catalogabile nel puro e schietto metal. Non un'opera facilmente assimilabile, ma un'esperienza da vivere più e più volte, finché non si senta il sangue che pulsa nelle vene e il cuore che palpita aspettando il prossimo capolavoro. Da amare fino alla morte.
We're spinning 'round on this ball of hate...

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