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31 Agosto 2009
L'OCCHIO
Mordi, Erode. Morditi il labbro ormai ebbro di rudi ordini, e giaci in silenzio. Ti piace ribadire d'ora in ora quella dura sentenza di rara arroganza, ti piace ridire ancora e ancora a quali orrende febbri hai condannato orde di padri e madri, tu che ti credi furbo ma godi soltanto di una rara sorte di lebbra dorata, ereditata dal maglio di un fabbro in giorni di danza che furono migliori.
Quante generazioni imperfette credi di aver trascinato nell'oblio? Quante dannazioni perfette ti giungono all'orecchio, di sera, quando finalmente crolli sotto il peso delle fatiche del giorno? Tante, troppe, forse una. Ma è sufficiente a deriderti e canzonarti, e a farti sentire come se centinaia di radi fili d'erba ti stessero schiacchiando sotto il loro peso inesistente, ma pressante come una colpa indelebile, come un crimine macchiato di punteggiatura inesistente. Gli anziani ti hanno ordinato, e tu hai eseguito: a morte la gioventù, a morte la speranza, a morte ogni fiato che non abbia ancora raggiunto la giusta età. L'età ritenuta santa, mantenuta lenta, contenuta d'onta. E tutto questo, per cosa? Per sostenere l'illusione, la speranza di una continua consistenza che oramai non esiste più, designata all'ignoto come sono destinati a cadere i quadri che ti osservano dalle pareti delle tue stanze, quando dormi, quando la tua coscienza perde conoscenza, quando finalmente giaci in silenzio. Cadranno come crollano le mille lacrime di pioggia da quella luna di cenere e tenere valli lontane, quella luna che ancora ti osserva e che innalza le amare maree quando meglio le aggrada, quando il parco Plutone supera l'orizzonte dell'immanente, quando anche le forti formiche si fermano infine per riposare.
E cosa resta del giorno? Cosa resta di tutte quelle corse all'ultimo minuto, per sollevare la polvere da quelle tavole malamente imbandite che non riescono neanche a sfamare un banchetto di convitati? Niente, se non il ricordo di una frase, il ricordo di una parola di troppo, il ricordo di un ordine perentorio che accompagnerà la tua anima fino al prossimo risveglio, Erode. Niente, se non il rimpianto di aver tarpato le ali a quelle pupille che nulla chiedevano se non di continuare a sbattere, ad aprirsi e a chiudersi, per sempre: fino al sorgere di un nuovo giorno, fino a che una lama non strapperà via il suo cuore e riderà, riderà, riderà ancora, riderà sempre più forte. Niente sarà come prima, tutto è stato mutato e mutilato dalla tua voce, dalla tua gola, dal tuo diaframma autoritario e sicuro.
Mordi, Erode. Morditi il labbro e ricorda quell'occhio che ti priverà del sonno, molto più di cento quadri appesi tutto intorno alla tue stanze, molto più di un mare di steli che fragili tendono il corpo verso la luce eterna. Bruciali vivi, rendili esangui, ma non potrai mai fermare la parola che continuerà a volare sulle ali della cenere, sotto il tenue fiato delle stelle, fino a quella luna lontana che ti si avvicina ogni giorno di più, come una promessa irrisolta. Come una condanna da adempiere, finalmente.
Tra tante iridi aride, alla tua che ancora arde e ride.
[Commento lasciato da Chiara Daino il 2 Settembre 2009, 22.45] |
Perché chi ha *pupille piropo* - può.
E non bastano: morsi e rimorsi per *cancellare* quell'amaro. Il solco terminale della Lingua-Erode [che la lama di luce, ora, si vendica, ora cresce - nonostante].
Chapeau Dani!
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[Commento lasciato da Pazuzu il 2 Settembre 2009, 22.57] |
In alto la lama, scalza via ogni indegno volto segnato da ore perdute nel tentativo di raggiungere le Porte della Storia. Storia che non si ripete, che non valuta il curriculum di nessuno, che non torna sui suoi passi.
In alto la lama, e su di essa la luce di quell'occhio lontano.
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