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Aprile 2006
30 aprile 2006
CHILLOUT
E cosa significa? Tante cose, e anche nessuna contemporaneamente. Rappresenta la ricerca dell’io interiore, e la volontà di riuscire a raccogliere dentro di sé tutta l’essenza di un solo istante di raccoglimento. È come cercare di racchiudere un soffio di vento all’interno di una gabbia di piume, trenta metri sotto il livello del mare. È come cercare di tradurre dei segni vergati su di un foglio ingiallito da una mano malata a cui sono state private le cure tanto tempo fa.
È una parola che racchiude tutti i voli pindarici che un sogno non sarà mai in grado di affrontare, e per cui è destinato a perire tra atroci meraviglie. È una parola che costringerebbe il diavolo a scendere a patti con l’amore stesso, sorridendo mentre gli occhi gli si riempirebbero di lacrime e di rimpianti perduti. Chillout. È un suono tra i suoni, è una parola tra le parole, è un senso tra i sensi. Leggera. Pesante. Pensante. Chillout.
Due occhi profondi. Blu. Incuriositi ed impauriti. Innocenti e provocanti. Sinceri. Chillout. Due occhi che rappresentano tutte le lacrime che ho versato e quelle che ancora mi tengo dentro, due occhi che parlano di verità nascoste e di segreti evidenti, di rancori dimenticati e amori scomparsi. Di volontà disperse. Di parole mai pronunciate. Di pensieri espressi in codice per non sconvolgere i neuroni stessi.
È questo il significato primitivo, il valore primevo, il colore di tutti i colori che circondano questa parola gialla come gli occhi di un camaleonte in pausa pranzo. Servitevi pure di tutte le apparenze che lascio dietro di me, perché non sarà con le mie briciole che sfamerete la vostra fame di conoscenza di me. Non sarà con le quattro parole che lascio sulla strada, che conoscerete tutto quello che credo debba essere la vita futura e quella anteriore, così come quella interiore.
Chi ci sorride quando non ci conosce lo fa per cortesia? Non per dispiacere, certo, o per non dispiacere. L’ordine è importante, così come lo sono le sensazioni e la certezza che niente sarà mai più come prima dopo una serata passata a riflettere e ridere su me stesso, capendo finalmente tutta la paura che trasmetto al mio cuore quando scopro che mi viene negata una certezza su cui avevo messo tutto il mio spirito, tutto il mio impegno, tutto il mio volere. Sono il capitano di questa nave che si chiama Niente, ed il cui colore non è altro che il significato più profondo di un attimo di serenità nel bieco mare dei gironi infernali. Quasi fossero unici. Quasi fossero magici. Quasi fossero chillout.
Chillout.
Chillout.
Niente altro più.
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27 aprile 2006
AZZARDO
Potrei scommettere con un sorso di sale che riuscirei a mettere più sete di un intero oceano, se solo spegnessi le apparenze che mi appannano gli organi interni.
Potrei scommettere con un soffio di morte che niente è più letale di un pensiero soppresso nell’inconscio volubile di un sogno represso nel tempo.
Potrei scommettere con un solo segno nel bianco del cielo che tutto quello a cui un cerbiatto può aspirare è un contorno degno della sua più tenera carne.
Potrei scommettere su quello che voglio, con ognuno di voi.
Perderei.
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23 aprile 2006
PIETRE
Sporche, lacere e grezze. Come tante parvenze di realtà appena svegliatesi dal torpore di un secolo di storia lasciva, siamo ancora qui. Sporche, lacere e grezze. Come se fossimo ricordi di un avaro in punto di morte, siamo state abbandonate nel nostro letto di malattia, e siamo state dimenticate. Sepolte nella sabbia, dove bambini ignari raschiano il fondo delle loro conoscenze con la plastica delle loro esperienze. Sepolte nella sabbia, come mausolei abbandonati nel vento di una collina al centro del mondo ma trasparente agli sguardi della vita. Sepolte nella sabbia, a ingrigire sotto gli occhi dei gabbiani che indolenti alle tempeste continuano la loro folle corsa contro le nuvole.
Una volta non eravamo così. Una volta eravamo come boccioli di primavera sotto il placido tocco di cotone di un naufrago assetato. Eravamo riverite da tutti, e nel centro esatto di quel pendolo fatato che è la tolleranza terrena. Eravamo lustre, bianche e linde, una volta. Poi è calato l’inverno. È calato come cala il sole, e le ombre della rovina si sono portate via tutte le certezze che ci avevano avvolto e cullato fino a quel giorno, fino a quel momento, fino a quel respiro. E da allora, siamo rimaste qui. Sporche, lacere e grezze. Sole.
Ora siamo dipinte dai poeti come se fossimo reliquie sopravvissute alle incurie del tempo, ma la folle verità è che siamo soltanto appassite nell’indifferente agonia di tutti, e nulla più. Non saranno parole di pietà a farci sentire migliori, a farci sentire differenti, a farci sentire ancora amate. Non saranno parole dettate dall’orgoglio a farci provare ancora quella gioia che abbiamo ucciso molti anni fa, quando siamo cresciute, quando siamo state dimenticate. Ora siamo così. Accettateci per come siamo. Lasciateci state. Lasciateci amare.
Voci attorno che bisbigliano numeri. Applausi di quella gioia che circonda avidamente un pensiero dannato dalle convinzioni terrene. Risa nude come l’anima di una triste medusa nell’oceano dell’espressione. Luci e parole che significano finta concentrazione per divertirsi con le parole di una ragazza intrappolata dalle abitudini appiattite dal sole. Grani di piombo che pesano sullo spirito come sorrisi di finti valori, corsi via nel colpo di coda di un’onda chiassosa. Basta.
Per fortuna la giornata è finita.
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4 aprile 2006
TANGO
Ho suonato il tango per una foglia morta,
annerita al suolo, cosparsa di terra,
lacerata in tutto il suo essere
e senza un futuro in cui sorridere.
Ho suonato il tango per una foglia morta
sperando invano di risvegliare il suo spirito
quando invece non c’era più possibilità
di svegliarla dal suo sonno stagionale.
Ho suonato il tango per una foglia morta
e mi sono accorto con sommo stupore
di essere sdraiato sulla terra fredda
al suo fianco, senza respiro.
Ho suonato il tango per una foglia morta,
annerita al suolo, cosparsa di terra,
lacerata in tutto il suo sorridere
e senza un futuro in cui essere.
Ho suonato il tango per una foglia morta
e rincorso quella luce in fondo al tunnel
sperano nascondesse i semi della vita
che ci è stata rubata nel sonno.
Ho suonato il tango per una foglia morta
abbracciando i pensieri di quel dio albero
che germoglia in tutti noi
e mette radici dove il sole tramonta.
Ho suonato il tango per una foglia morta
e ho visto la mia morte, e con lei la vita
e ho visto quella foglia risorta
col divenire di una nuova sera.
Ho suonato il tango per una foglia risorta
accorgendomi per la prima volta
in tutta la mia misera e corta vita
di essere già appassito nel tempo
senza nemmeno essermi goduto le stagioni
che colorano di verde la linfa dorata
di una creatura il cui certo destino
è annerire al suolo, cosparsa di terra.
Ho suonato il tango per una foglia morta:
ero io, e attorno a me cadevano serene
lembi verdi di una pianta sorridente
che benevola mi sussurrava amore.
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