Quanti al giorno d'oggi seguono l'esplosione della scena stoner rock avranno sentito nominare piu' volte il quintetto dei Trouble, spesso in termini elogiativi. In effetti, la band di Chicago e' stata per molti versi anticipatrice di alcune tendenze sonore della musica pesante di questi anni, senza mai per altro ottenere il giusto riscontro di pubblico. Nati negli anni Ottanta, i Trouble si segnalarono subito come efficaci continuatori dell'oscuro suono sabbathiano, modernizzato dalla giusta dose metallica, e si proposero a modo loro come la controparte americana al doom-metal europeo sviluppato negli stessi anni dai Candlemass. Sarebbe ingiusto pero' definire la band come dei semplici cloni dei Black Sabbath, soprattutto in virtu' di quanto ha prodotto nella prima meta' di questa decade. Il quintetto, infatti, fu protagonista, a partire dall'omonimo quarto disco pubblicato nel 1990, di una notevole trasformazione stilistica: pur conservando sonorita' profonde e oscure, i musicisti abbracciarono soluzioni musicali piu' snelle, spesso veloci, dotate di un forte sapore psichedelico. L'entusiasmante miscela sonora, che dotava la band di una espressivita' fino a quel momento forse latitante, venne ulteriormente rifinita nel seguente "Manic Frustration" (1992) per giungere a compimento nel qui presente "Plastic Green Head". Il cambiamento non giovo' pero' alla carriera dei Trouble: i fan della prima ora in parte non apprezzarono la trasformazione, e allo stesso tempo la band non riusci' a trovare una precisa collocazione in un mondo musicale che si stava riprendendo dalla tempesta "alternative".
"Plastic Green Head", rappresenta tuttavia il culmine della carriera di questa band: un album tutto da riscoprire.
Il gruppo americano ruotava attorno al carismatico cantante Eric Wagner, dotato di una voce estremamente duttile, e alla coppia di chitarristi Bruce Franklin e Rick Wartell, degni seguaci del culto del riff spaccamontagne. Proprio l'impeto chitarristico, esaltato da una produzione ruvida e dinamica, e' la chiave di lettura di questo disco, che assorbe e metabolizza frammenti hard rock del passato e del presente.
La title-track apre le danze, con un riff massacrante e un dinamico tempo di batteria. Brilla subito all'orecchio l'efficacia del duo Franklin-Warrel: i chitarristi costruiscono un muro sonoro nel quale confluiscono potenza sabbathiana, scioltezza zeppeliniana e acidita' tutta anni Settanta. Se vogliamo fare un paragone, le sonorita' sono assimilabili a quanto proposto al giorno d'oggi dai Corrosion of Conformity. Il riuscito connubio tra svisate psichedeliche e assalto triturante marchia a fuoco il brano, che senza soluzione di continuita' sfocia nella seguente "The Eye", un mid-tempo piu' vicino ad atmosfere doom, di nuovo magistralmente condotto dai due axemen. Il riffing martellante si stempera poi in "Flowers", canzone che riporta alla mente addirittura i Soundgarden di "Badmotorfinger", in virtu' anche della notevole interpretazione vocale. Proprio la somiglianza con la band di Seattle sottolinea la modernita' del suono dei Trouble, che solo l'ottusita' di certi "steccati" musicali lascio' senza il giusto riconoscimento. "Porpoise Song" e' una cover di un vecchio brano di Carole King, con un'ammaliante melodia vocale e emozionanti guitar-solos di scuola quasi pinkfloydiana. "Opium Eater" e "Hear the Earth", i due brani seguenti, richiamano nuovamente il fantasma dei Soundgarden, debitamente rivitalizzato dalla giusta dose di suoni psichedelici e acidi. Vanno sottolineate anche in queste due canzoni le mille sfumature date dall'ottimo lavoro chitarristico. Si prosegue con "Another Day" e "Requiem", coppia di canzoni che costituisce il segmento piu' emozionale del disco. La prima e' nuovamente un mid-tempo di matrice settantiana, costruito su un riffing spezzato e intricato, sempre carico di notevole tensione emotiva e intarsiato da splendidi interventi solistici. "Requiem" invece e' quasi una ballata: arpeggi tristi e liquidi sottolineano il cantato pacato e intimista, per poi esplodere in un refrain delicato e penetrante allo stesso tempo. Emozionanti gli assoli in crescendo prima dell'ultima strofa. Senza dubbio la migliore canzone del disco.
Le seguenti "Long Shadows Fall" e "Below Me" sono due brani piuttosto simili, entrambi veloci e ficcanti, animati da un aggressivita' fino a quel momento quasi nascosta. Il dinamismo delle ritmiche si intreccia solido all'ormai familiare e implacabile muro di riff, mentre Wagner da' sfogo alle sue tonalita' piu' forti. Il giusto bilanciamento all'atmosfera un po' lugubre delle due canzoni precedenti. Chiude il disco la cover di "Tomorrow Never Knows" dei Beatles, resa in uno stile pesantemente psichedelico.
"Plastic Green Head" rappresenta a tutti gli effetti l'epitaffio dei Trouble, che si sciolsero breve tempo dopo la pubblicazione del disco, vittime del disinteresse generale e delle classiche "divergenze artistiche". Non si puo' fare a meno di provare una certa rabbia, se pensiamo al valore dell'opera e a quanto fosse in anticipo sui tempi. Se "Plastic Green Head" avesse visto la luce al giorno d'oggi, la sua combinazione di devastante hardrock e psichedelia, forse avrebbe ottenuto un riscontro molto maggiore, sicuramente proporzionato al valore del disco. Possiamo sperare che, visto che il loro nome continua a girare nell'ambito stoner, la band torni sui suoi passi e decida di tornare a regalarci nuove psichedeliche emozioni.