Se qualcuno dovesse obiettare che l'AOR e' un genere che ormai definire giurassico e' un eufemismo, come potremmo mai dargli torto?
Uscite stampate con il ciclostile, un recupero di un suono eighties con una produzione spesso scadentissima la' dove certi dischi erano sciorinamento di grandi pajettes e lustrini, pochi argomenti da trattare musicalmente se non la nostalgia, grandi artisti deludenti dal punto di vista del sognwriting (chi ha detto Mark Mangold? E Fredriksen?) ed un sacco di materiale che negli anni ottanta nell'airplay sarebbe stato surclassato da chiunque oggi ce lo ritroviamo decantato come capolavoro.
Questo disco si stacca dalla massa inerme di produzioni, e sebbene inizialmente suoni come un all star project e l'ennesimo disco di un chitarrista, riesce nell'intento di ridare un sottile strato di dignita' ad un genere ormai dichiarato agli sgoccioli da molti.
Le voci che escono da questo lavoro sono quelle di Joe Lynn Turner, Kelly Hansen (Unruly Child, Hurricane), Glenn Hughes e Ritchie Sambora.
Ovviamente lontano anni luce dal progeto Aliens with extraordinary ability in cui Smith divideva il campo, fra gli altri, con Keith Emerson, ma un godibilissimo disco da vacanza, da autostrada senza coda (seeee... nda), da estate, insomma.
Le tracce piu' americane, come la opener "Don't keep me waiting" sono affidate ad Hansen, le piu' "rainbowiane" vengono colorate da un Joe Lynn Turner ormai divenuto session man (nessuna differenza nelle sue interpretazioni in questa sede e nei dischi solisti ormai elargiti con una apparente creativita' rinata, cosa peraltro irritante vista la performance in una canzone che diro' oltre).
Uno degli highlight del disco, un bluesaccio da paura, e' cantato da Glenn Hughes, "See that my grave is kept clean", che ci riporta lo Hughes del progetto L.A. Blues authority e lontano dalle funk songs del suo piu' recente lavoro. Eccellente rivisitazione di uno standard, magia struggente in fatto di emozionalita'.
"When a blind man cries" sembra la risposta di Smith ad Axel Rudi Pell, con un Sambora in grande spolvero sulle vocals e decisamente meno sofferente di Bob Rock alla corte di Pell. Ovvio, l'originale (dei Deep Purple, eh!) e' un'altra cosa, ma questa rilettura e' a dir poco affascinante.
""Dreams of desire" e' uno strumentale su arie di Bach, "Trouble in Paradise" un quasi hard and roll di ottimo impatto che ci accompagna ad un altro higlight del disco, "Shadow of the tyburn tree", quasi strappato al songbook dei Blackmore's night, dove si racconta di roghi di streghe avvenuti oltre 400 anni fa e dove, improvvismaente, il buon Turner riesce ad esprimere davvero il talento da singer che gli veniva riconosciuto in tempi non sospetti. Domanda scontata: perché mai, il buon Joe Lynn non si decide a cantare con questa intenista' in ogni sua prova?
"It's got to be love" ci porta al lato fun and wild del disco, "Do you ever think of me" ricorda forse un po' troppo da vicino le linee Van Haleniane di "When it's love", ma puo' tranquillamente candidarsi a hit single dell'album.
In definitiva, un disco per chi ama il rock melodico ma non ancorato soltanto agli schemi degli anni ottanta, che abbia il coraggio di osare, di entrare anche nei territori del blues, dove le tastiere compresse e pompose possono essere lasciate da parte in favore di suoni hammondiani, certamente un disco che si erge con pieno diritto sopra la media delle uscite melodiche degli ultimi tre anni almeno (insieme al secondo album degli Hard Rain di Tony Clarkin), osando anche mettere la pulce nell'orecchio di tutti coloro che "se non sono i Journey non li vogliamo", insistendo sulla domanda: " ma siete sicuri che l'aor si sia fermato li'?". Altrimenti, "Frontiers" non e' ancora fuori catalogo. Oppure, attendere l'ormai vicina uscita del nuovo Survivor il cui singolo venne registrato ben nove anni fa.