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Non c'e' luce alla fine del tunnel...
Gli Slipknot sono un caso clinico terminale, nessuna salvezza e'
prevista, nessuna redenzione concessa.
Protetto/prodotto da Ross Robinson(un nome su tutti: Korn) questo combo
proveniente dall'Iowa debutta con un disco devastante( evoluzione delle
intuizioni di gruppi come Machine Head, Korn e Sepultura) che non prova
neppure a fare prigionieri, partendo dal presupposto che siamo gia' tutti
morti ("cut your throat and keep walking" e' una delle scritte che
campeggiano nel digipack...)! Violenza, disperazione, insensato e cieco
scalciare nel buio, psicosi... gli Slipknot sembrano considerare queste
come le uniche coordinate possibili per inquadrare la realta' di
un'America ormai allo sfascio sociale ed emotivo e lo fanno con una
proposta musicale che ingloba metallo, noise, hip hop, elettronica,
hardcore, percussioni tribali e industriali.La stessa line-up evidenzia
come l'attenzione del gruppo sia concentrata sull'aspetto ritmico,
presentando un (ottimo) batterista e ben due percussionisti, oltre ad un
DJ che si occupa dello scratch ed uno che si occupa dei vari
campionamenti.
Lungo l'arco del disco, la band sembra disinteressarsi di
qualsivoglia forma di ortodossia musicale (compaiono persino momenti
jungle), ponendosi l'unico obbiettivo di colpire l'ascoltatore da ogni
direzione,erigendo un muro di suono impenetrabile, ma in perenne
evoluzione.Dal maelstrom sonoro emerge costantemente la voce di Corey,
in grado di esprimersi con timbriche diversissime (riesce ad essere sia
melodico in puro stile alternative che deviato ed aggressivo quanto il
piu' efferato deathmetal singer) nello spazio di poche battute. Immaginate
una sorta di mix genetico tra Jonathan Davis, il Mike Patton dei
Mr.Bungle piu' schizzati e Max Cavalera... Il risultato? Piu' che di heavy
metal,parlerei di Metallo e basta: questo e' un disco che picchia molto
di piu' di tante opere power! Violento impatto dell'acciaio sull'asfalto
e sul vetro di una metropoli in disfacimento materiale e spirituale... Ma
attenzione! Non solo di furia cieca si tratta: superato lo shock del
primo ascolto,appare chiaro che dietro il progetto Slipknot c'e' una
ricerca musicale e compositiva non indifferente, visto che i pezzi sono
spesso molto strutturati e arrangiati con attenzione certosina verso i
dettagli.
Parlare dei singoli brani potrebbe risultare inutile, oltre che
fuorviante, poiche' l'album colpisce nella sua globalita' e se e' vero che
le fonti di ispirazione del gruppo sono facilmente individuabili, e'
altrettanto vero che il risultato finale e' piuttosto personale e di
sicuro "fresco". E, incredibile a dirsi per un gruppo che ha la
possibilita' di piacere sia al fan dei Korn che al deathmetallaro piu'
open-minded, un certo gusto per la melodia deviata ma
memorizzabile(almeno in brani come "Wait and bleed" e "Purity", ad
esempio) potrebbe spalancare agli Slipknot le porte delle
alternative-charts statunitensi. Un disco che nella sua perfezione puo'
addirittura far nascere il dubbio dell'operazione studiata a tavolino,
ma di fronte ad un prodotto del genere e' forse il caso di soprassedere e
di lasciarsi trascinare dal vortice delle chitarre e della doppia cassa:
poi si vedra'... perche', nelle stesse parole del gruppo, "worse forwards
than backwards".
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Avevo intenzione di stendere una recensione "canonica", con le descrizioni delle canzoni una per una, come uno scolaro provetto all'esame. Poi mi sono reso conto che non avei assolutamente reso giustizia al disco.
Ho tolto tutto, lasciando solo le impressioni, questo e' quanto.
Se un giorno si dovesse eleggere a serial killer del millennio un disco, la gara sarebbe davvero ristretta.
Oltre all'outsider "City" degli Strapping Young Lad, non ci sarebbero altri rivali se non questo debutto della band dell'Iowa, di Des Moines per la precisione.
Nove elementi nove, di cui uno e' un dj, della cui unita' si rimanda al concetto Kubrickiano di Arancia Meccanica, al peggiore incubo di ciascuno di noi.
Benvenuti nel delirio, dove significa metal, dove il corssover non prende in prestito da altri se non dall'essenza stessa di un'attitudine violenta, pazza, squilibrata, maniacale, dove non c'e' respiro che si possa prendere, tanto incalza la cattiveria.
I piu' affezionati alle etichette stavolta ne dovranno coniare una nuova, perche' non si puo' parlare di crossover come lo si e' definito a tutt'oggi, qui si usa l'hip hop per incrementare l'odio, per prendere a calci nelle palle l'ignaro ascoltatore che si fida di nove mascherine, di un proclama indipendente di vendetta nei confronti di una scena musicale completamente tesa a ribadire i concetti della doppia cassa da una parte o ridefinire il songbook dei Depeche Mode dall'altra e si pone in completa antitesi sia con gli uni che con gli altri.
In questi settanta minuti (ghost track compresa), si alternano tutte le forme di estrema violenza applicabili alla scrittura di una canzone ed alla sua esecuzione, opere incancrenite e putrefatte al loro interno come se fossero usciti da schizzi di sinapsi completamente fuori controllo.
Un'apoteosi della pazzia, una descrizione sommaria della dark side di ciascuno di noi, quella bestialita' latente che e' riuscita a spezzare le catene di ogni possibile ragione e si trova pronta a devastare dopo essere stata rinchiusa in una scatola cranica per troppi anni.
Ovvio che il nome di Simon Robinson alla consolle potrebbe far storcere il naso ai detrattori dei Korn e far venire la bavetta agli estimatori del gruppo ben piu' in vista degli Slipknot, ma cosi' non e'.
Ovvie e chiare le influenze su un certo tipo di suono, ma ragazzi, qui la cattiveria e' ben oltre i marchi di scarpe, i singolini da classifica e le copertine di un McFarlane in vena di gite da boy scout!
Fa impallidire lo stereo questo debutto omonimo, fa impallidire i vicini, erige un muro di suono invalicabile, che tutto ad un tratto ti crolla addosso e toglie ogni possibile ansito di vita.
Un disco da osare, per osare, oppure da pigliare a piccole dosi come se fosse caffe' nerissimo e bollente per restare svegli in un panorama che sta lentamente diventando piu' "soffice" tranne che in rare eccezioni, che riporta prepotentemente l'attitudine metal la' da dove sembrava fuggita, la' dove risiede e la mostra in tutto il suo fulgore, viva e vegeta, nel suo disagio (perche' e' la sensazione che pervade durante l'ascolto, vero e proprio disagio interiore), nel suo violento esprimersi, nella cattiveria iniettata anche nelle puntine del dj, nei riff granitici che sputano fuoco dalle casse dello stereo.
Chiamatelo come volete, crossover, new metal, post metal, bad metal, non chiamatelo nemmeno metal, chiamatelo solo ed esclusivamente "Slipknot".
Come? Le canzoni una per una? E che importanza hanno, scusate, di fronte ad una proposta come questa?
Questo non e' un disco, e' un'esperienza.
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