Avete presente la scena in cui Fantozzi viene invitato a giocare a biliardo dal Cavalier Catellani? Bene, al primo punto segnato da Fantozzi quasi per sbaglio, Catellani sbotta con "Questo e' culo, coglionazzo, culo! La mia e' CLASSE!"...
Queste stesse parole le potrebbe rivolgere Mark Reale, chitarrista e leader dei newyorkesi Riot, ad un Timo Tollki qualsiasi riguardo al fatto che attualmente gli Stratovarius (o gli Edguy o gli Hammerfall o qualunque altro dilettante del metal classico a vostra scelta) stanno avendo tutta questa notorieata'. Gia', perche' se i Riot non sono divenuti delle superstar del metal e' solo questione di sfortuna, come il nuovissimo ed eccelso "Sons Of Society" dimostra ampiamente. Lo stile del nuovo album si allinea con quello piu' Rainbow-oriented mostrato nei precedenti due album, supportato da un'esecuzione tecnica strepitosa e gusto sopraffino: la perfetta fusione fra l'hard & heavy quintessenziale e diretto, tipicamente americano, dei Riot e le atmosfere magniloquenti proprie della band di Ritchie Blackmore. Dopo l'intro acustica/folk "Snake Charmer" si parte subito con i granitici up tempos rappresentati da "On The Wings of Life" e dalla title track: le chitarre di Reale e Flyntz disegnano riffs potenti ma al contempo aggraziati e ricchi di melodia, Bobby Jarzombek offre una prestazione alla batteria tecnica e dinamica (alla faccia di chi disprezza questo genere anche per colpa dei noiosi e monolitici drummers tedeschi che dettano legge oggi), Mike Di Meo sale in cattedra con la sua bellissima voce, che combina il timbro di Joe Lynn Turner con la passionalita' di David Coverdale. Questi soli due pezzi sono abbastanza per buttare nel cesso il 99% del power metal degli ultimi anni... Ma naturalmente c'e' di piu': il cadenzato "Twist Of Fate", guidato da un'interpretazione vocale enfatica e trascinante, la ballad alla Whitesnake "Cover Me", il terremotante assalto frontale "Dragonfire" (nella strofa un po' troppo simile a "Spotlight Kid", in verita'...) con solos neoclassici fatti con gusto e non messi li' tanto per fare, la piu' diretta e ruvida "The Law" che non avrebbe sfigurato sul classico "Fire Down Under"... L'album si conclude con il terzetto "Time To Bleed", "Promises" e "Somewhere", che mantengono il livello altissimo. Che altro aggiungere? Qui ci troviamo di fronte a veri musicisti, ad un songwriting equilibrato e ad una cura per i dettagli maniacale: niente canzonette rubacchiate qua e la', costruite unicamente attorno ad uno stupido coretto birraiolo travestito da "epico", niente energia finta e spruzzata col nebulizzatore, niente pacchianate e stupide dichiarazione di purezza del metallo.
I Riot si riconfermano gruppo sublime ed inarrivabile, e questo loro nuovo disco (assieme all'ultimo, mastodontico Virgin Steele) dimostra la mia teoria: certe cose vanno lasciate fare ai professionisti!