Quando nel 1993 David Coverdale mise in ghiacciaia i Whitesnake per dedicarsi al progetto Coverdale-Page gli altri membri del glorioso complesso inglese non restarono certo con le mani in mano. Anzi, il chitarrista Adrian Vandenberg colse al volo l'occasione per registrare questo disco sotto il monicker Manic Eden, un lavoro quasi da solista (Vandenberg scrive la quasi totalita' dei brani e cura pure l'artwork!), realizzato con la collaborazione dei "serpenti" Rudy Sarzo (basso) e Tommy Aldrige (batteria) e di Ron Young, cantante degli street-rockers Little Ceasar, interessante band che ebbe un discreto successo sulla scia dell'esplosione dei dei Guns N' Roses.
Uscito originariamente solo in Giappone e piu' tardi stampato anche in Europa, questo album ci mostra un lato della personalita' musicale di Vandenberg ben lontano dagli eccessi class-metal dei Whitesnake del "periodo americano". Il chitarrista olandese partorisce, infatti, un fantastico album hard rock dove l'ispirazione principale sono gli anni Settanta: sonorita' hendrixiane, riffs scattanti e dinamici, assoli pieni di feeling, belle melodie e un discreto gusto hard blues, questo si' avvicinabile al suono dei primi Whitesnake. Il tutto ovviamente registrato con la corposita' sonora degli anni Novanta. Un disco dal sound personale, che puo' ricordare talvolta un altro grande gruppo scomparso troppo presto, i Badlands. La potente chitarra di Vandenberg dona forma a ottime canzoni come l'opener "Can You Feel It", o le coinvolgenti "Crossing the line" (con la sezione ritmica in notevole evidenza e un assolo stupendo) e "Pushing Me", che rielabora la classica "Purple Haze". Brani che si ascoltano con piacere e che sembrano ancora oggi senza tempo. Talvolta il songwriting si avvicina allo street rock americano, come nella trascinante "When the Hammer Comes Down" e in "Can't Hold It", dotata di un attacco potentissimo e di curiosi inserti rappati. La ricerca di soluzioni inusuali si evidenzia anche in "Fire in my Soul", brano quasi funkeggiante che puo' ricordare i Red Hot Chili Peppers in una versione piu' heavy. Una nota di merito va a Ron Young, dotato di una voce grintosa e di un timbro scuro estremamente affascinante, capace di donare sfumature da brividi a quelli che sono veri gioielli di questo disco: le ballads. Croce e delizia del metallo, i famosi "lentoni" sono anche il banco di prova per la qualita' di qualsiasi songwriter. Nella mia modesta opinione, Vandenberg e Young passano l'esame a pieni voti: "Ride the Storm" ha una triste melodia di quelle che si stampano subito in testa e un fantastico assolo bluesy; "Do Angels Die" cita piu' o meno apertamente "Little Wing", costruendo un affascinante atmosfera elettroacustica; infine, "Dark Shade of Gray" e' una classica ballad settantiana, con un leggero sottofondo di organo. Canzoni stupende come, credetemi, non se fanno piu'. Ma un po' tutti i brani sono a livelli di eccellenza assoluta e vanno ascoltati senza pregiudizi; citazione d'obbligo per l'orecchiabile "Keep it coming", che chiude il disco in modo efficace, potendo contare anche su bei cori femminili.
La sfortuna, si sa, si accanisce particolarmente su quegli artisti che piu' meriterebbero considerazione. Difatti i Manic Eden sparirono rapidamente nel nulla poco dopo la pubblicazione del debutto. Un vero peccato, vista la qualita' di questo piccolo capolavoro hard rock. Purtroppo nella scena attuale non e' rimasto quasi piu' nessuno a portare avanti, con identica caratura, il testimone di queste sonorita'. "Manic Eden" e' un disco di non facile reperimento, ma se mai lo trovaste, non abbiate dubbi e acquistatelo. Fate un passo nel giardino dell'Eden!