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Gli Iron Maiden sono come la Scavolini: i piu' amati dagli italiani. Una
battutta orrenda, la mia, che comunque rispecchia il fatto che "Brave New
World" e' sicuramente l'album piu' atteso dell'anno dalle nostre parti e che
per molto tempo ancora durera' la discussione sul suo valore reale o
immaginario... La storia della reunion (sincera? pianificata a
tavolino sette anni fa?) la saprete tutti, ognuno con le proprie idee a
riguardo, qui si parla invece del frutto della nuova formazione
allargata. Partiamo dalla superficie, ovvero la produzione e le tre chitarre.
Kevin Shirley ha optato per un suono potente e pulito, con la sezione ritmica
ben evidenziata (come da tradizione) e senza utilizzare per il resto
accorgimenti moderni: chi si aspettava chitarroni pesantissimi al granito con
basso cupo e rombante, elementi tipici ormai di quasi tutti i dischi di adesso,
si trovera' di fronte ad una scelta sonora decisamente old fashoned, attuale
soltanto per la nettezza dei suoni. Del resto l'importante era togliere
Harris dalla console, no? Passando ai tre chitarristi, cambia solo il fatto
che adesso abbiamo tre personalita' distinte che emergono durante gli assoli,
come mi spettavo. E ora veniamo al sodo: ma 'sti nuovi/vecchi Iron Maiden
che hanno combinato stavolta? Semplicemente hanno dato sfogo alla loro vena
piu' progressiva, un particolare che mette sotto nuova luce i criticatissimi
dischi dell'era Bayley facendoli apparire come due grezze prove generali per
i brani contenuti qui dentro. Delle dieci canzoni, ben sette sono lunghe ed
articolate, snodandosi su corpose e coinvolgenti parti strumentali,
guidate da cantati epici e carichi di pathos (Bruce sembra davvero rigenerato,
scordatevi la voce alla Duffy Duck di "Fear Of The Dark") e, cosa piu'
importante, seriamente scritte e pensate per essere complesse (vale a dire,
niente piu' canzoncine da tre minuti portati a nove con un assolo di sei minuti
totalmente inutile - il giochetto che rendeva terribile "Virtual XI"). "Via il
dente, via il dolore", recita un famoso detto, quindi preferisco subito
parlare di quello che non va: il trucco di ripetere ritornelli all'infinito
rovina parzialmente alcune canzoni, in particolare la title track, e il
singolo "The Wicker Man", pur se gradevole, sta insieme con lo sputo (ma di
questo ha gia' parlato Alby diffusamente nella recensione apposita). Per il
resto siamo di fronte finalmente ad un gran disco, che cancella la scadente
discografia Maiden degli anni '90 in un colpo: vi segnalo i miei pezzi
preferiti, ovvero "Blood Brothers" (che si appoggia su un'inedito sviluppo
progressive-folk, e qui mi viene in mente il dichiarato amore di Harris per i
Jethro Tull) e "The Nomad", quasi dieci minuti assolutamente da urlo (affiora
un deciso sentore Rainbow alla "Gates Of Babylon" e, ehm, "Stargazer") dove
viene tentata la carta della melodia arabeggiante che
spesso finisce per essere una trappola mortale (presente "Nights of Arabia"
dei Kamelot? Presente infilarsi due dita in gola? Stesso effetto...). E
ora togliete i discacci degli Edguy e dei Demons And Wizards dallo stereo,
forza!
VOTO: 1/1 Niccolo'
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