Questa recensione avrebbe anche potuto intitolarsi "De folgoratione", tanto per iniziare.
Doverosa premessa, in quanto il sottoscritto non ha mai frequentato i territori dell'estremo, proprio non era mai riuscito ad addentrarsi in questi meandri. Invece, durante l'anno in corso, ecco che appaiono nella collezione dischi quali Grip Inc, Testament, Breach, e via di questo passo, che volete farci? L'armageddon e' vicino?
Questo non lo so, di sicuro sono certo che "Burning bridges" fara' saltare molte casse negli impianti di mezzo mondo.
Amott si impossessa delle linee di chitarra, lontane anni luce da quanto propone con gli Spiritual Beggars, e le rende protagoniste di quaranta minuti di assalto, frontale, diretto, rendendo anche omaggio alla New Wave Of British heavy Metal con la furia della fine millennio.
Una definizione globale di questo disco, in effetti, potrebbe essere "il trionfo delle linee di chitarra", che guidano - alla faccia dei drum and bass e di tanti dischi osannati come innovativi - alla nuova frontiera del thrash, del death e di venature prog.
Come potrebbero convivere questi elementi?
Forse non e' nemmeno da evincere a parole questa formula magica e forse proprio perché di magia si tratta (beccatevi l'intro di chitarra di "Pilgrim" e poi fatemi sapere), nessun alchimista svelerebbe mai i propri segreti al mondo.
Tecnica, melodia, songwriting, assoli sparati come treni in corsa, ritmiche serrate che rincorrono trasversalmente un recupero del metal delle origini finalmente grondante personalita'.
Amott sugli scudi, e la linea difensiva chiusa dalla sezione ritmica di Daniel Erlandsson (ex In Flames fra gli altri) e di Sharlee DiAngelo (gia' alla corte di King Diamond nei Mercyful Fate), il grido di battaglia viene scandito da Johan Liiva che e' l'impersonificazione della furia che si impossessa del nostro povero impianto e non lo lascia piu' andare, cullandolo con melodie incastonate in questo vortice che non fanno altro che stregare.
Forse uno dei dischi definitivi, nel senso che potrebbe condurre da una parte chi, come me, non ha mai masticato bene l'estremo a rifarsi finalmente una dentiera degna per amarlo fino in fondo cosi' come condurre pian piano anche tutti gli "allergici alla melodia" verso situazioni piu' serene in ambito musicale.
Il disco si apre con "The immortal", diretta, un vagone della metropolitana preso in piena schiena, ma non c'e' il tempo per rendersi conto di quanto ci ha fatto male perché incalza "Dead inside", ed e' come se quel primo vagone ci avesse sbalzato contro il treno proveniente in senso opposto. Non c'e' che dire, bisogna essere immortali, ed ecco che le orecchie captano il richiamo della NWOBHM mentre ci ritroviamo negli incubi post anestesia. "Pilgrim" e' forse l'highlight dell'album, un capolavoro trasversale oserei chiamarlo, la' dove le convergenze di etichette vanno in collisione e o si fratumano o diventano (finalmente!) solo heavy metal, oppure (come mi auguro da tempo) cessano completamente di esistere. "Silverwing" e' il tributo degli Arch Enemy agli eighties, filtrato da una frenetica sete di futuro e di rabbia incontrollata, mentre "Demonic science" e' il lato piu' tradizionalmente estremo della band. Possiamo anche perdonare la pesante citazione ritmica di "Strange Wings" dei Savatage in "Seed of hate" (sempre meglio essere citati da Amott che da Courtney Love, no?) e goderci un altro tiro "mancino" del gruppo, prima di "Angelclaw" dove vengono abbozzate le growl.
La title track e' l'altro masterpiece del lavoro, nel suo incedere inizialmente maledetto alla Black Sabbath con Liiva in puro stile declamatorio. Proprio su queste note mi sono posto una domanda: e se il futuro di un certo tipo di metal estremo, abbandonata la violenza fine a se stessa, potesse diventare davvero inqueitudine allo stato puro, se vogliamo meno violento fisicamente e terrorizzante a livello mentale? Qualcuno potrebbe anche pensare che in un certo senso questa canzone veleggi verso i confini del gothic. A me, che le etichette stanno strette, piace invece pensare che sia soltanto il tassello finale di una grande opera, sicuramente uno dei mei top album dell'anno.
A chiusura, le due bonus tracks, "Diva satanica" e la brevissima strumentale "Hydra", godibili in sé come appendice, ma che nulla aggiungono allo sfavillare di tanto metallo presente in "Burning bridges".
E, consentitemelo, fuori di metafora, stavolta i ponti sono davvero bruciati e, almeno per il sottoscritto, non e' possibile tornare indietro.