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16 Marzo 2010
VADEMECUM
Avete spaccato.
Musicisti più o meno esordienti che scendete dal palco, diffidate di coloro che vi rivolgono queste parole, al vostro interrogarli su come sia stata la vostra esibizione. Sono due parole che potrebbero lasciare ad intendere un complemento oggetto per niente edificante. Si, proprio quello. Il cazzo. E diffidate quindi di chi ve le rivolge, perchè a dare pacche sulle spalle quando si scende da un palco sono capaci tutti, fosse anche solo per amicarsi qualcuno che fino a poco prima era sopra le loro teste. Per sentirsi importanti. Per essere amici di chi dominava la scena. Ma è altrettanto vero che salire su di un palco non è affatto un traguardo, ma soltanto un gradino in quella infinita scalinata che porta al paradiso, e che quindi niente regala se non sofferenza e tormenti continui. Siete in grado di sopportare tutto questo? Ne avete le palle?
Cosa vi aspettate che vi si risponda, quando i vostri piedi abbandonano le luci della ribalta? Applausi, complimenti, strette di mano, affettuosità varie? Mi spiace dirvelo, ma i salamelecchi sono finiti [in gran parte, in quel mondo virtuale che risponde al nome di MySpace] e Gargamella ha fatto le valigie. Nel tetro reame reale che vi circonda, tutti quegli applausi, quella pletora di complimenti, quel susseguirsi di strette di mano, non sono altro che un tentativo di ingraziarsi la figura miticizzata del musicista, che riesce così a riempire ancora e ancora [e ancora] il suo ego già colmo fino a scoppiare. Ma non servono a niente. A nulla. Sarebbe molto più onesto, ad un cantante che osa interrogare il pubblico [perchè, poi?] su come sia stata la sua prestazione, rispondere con sincerità: hai una voce che non si adatta alla musica che fate; non capisco perchè tu continui ad imitare Piero Pelù; stasera non hai cantato, hai belato; hai un inglese che mette i brividi, o lo impari, o cambiate cantante, o cantate in italiano. Stesso discorso per chitarristi e bassisti, si intende: non ti sei nemmeno accorto che non eri accordato; una trave in legno avrebbe avuto più presenza scenica di te; non sei nella tua sala prove. E potrei andare avanti per ore, con batteristi e tastieristi.
Alice Cooper docet: you want it, you got it.
Bastano centoventi secondi per uccidere un musicista. Centoventi secondi di pura, nuda e cruda verità.
I primi sessanta servono per soffocarlo nella biada delle sue inutili bugie, affinchè smetta di crogiolarsi in quelle futili convinzioni che si è costruito attorno e con cui ha cercato di plasmare il mondo circostante. Sessanta secondi sono più che sufficienti, affinchè smetta di guardarsi nello specchio delle sue brame, oppure non saranno mai abbastanza. I secondi sessanta sono per lasciarlo da solo, abbandonato ai fantasmi che continueranno a bussargli alla porta anche quando crederà di aver raggiunto l’irragiungibile, quella ricchezza interiore che invece riduce sul lastrico ogni malato di se e di ma. Un minuto di solitaria agonia, un misero minuto di randagia rabbia che poco per volta lo scuoterà da dentro, fino a farlo dubitare di tutto, perfino del soffitto che incombe sulla sua sporca coscienza. Non esiste riparo dalle stelle già morte, non esiste rifugio dalle comete che, prima o poi, ritornano sempre. E quando tornano, troveranno soltanto una fossa di centoventi cadaveri al loro passaggio. Centoventi cadaveri trafitti da lame di ghiaccio, lame disciolte nel tempo su cui non si poserà mai più nemmeno un occhio scagliato da Odino nel vacuo divenire.
Centoventi secondi: tanto basta per uccidere un musicista.
Oppure, una parola di troppo, scelta e mirata, al momento giusto. La verità fa male, ma aiuta a crescere: e quello che non uccide, è risaputo, rende più forti. Quindi, musicisti, sappiate quello che state chiedendo, prima di farlo. E ricordate che la risposta sarà sulla vostra musica, sulla vostra arte, sulla vostra performance, e non sulla vostra persona. Poco importa se la persona che vi è di fronte sia un vostro amico d'infanzia o un compagno di bevute occasionali. Le parole che usciranno dalla sua bocca saranno un commento su quello che ha visto, su quello che avrebbe voluto vedere, su quello che ha percepito, su come potreste migliorare, su cosa avete significato per lui quando vi osservava come pubblico, giudice e giuria.
Avete spaccato il cazzo?
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