I lucchesi Handful of hate sono finalmente tornati fra di noi, dopo il loro
ottimo debutto, e con loro hanno portato la malvagita' e la furia assassina
che li caratterizza. Il loro nuovo album, "Hierarchy 1999" e' un concentrato
di blasfemia a non finire, e anche se gli si puo' paragonare ai padri putativi di questo
genere, ovvero i Marduk, va detto che gli Handful of hate sono riusciti a
costruire un proprio stile che li rende facilmente riconoscibili. E questo
disco ne e' la prova, infatti nonostante sia costituito da brani tutti molto
veloci, non mancano parti piu' ragionate, che sono leggermente piu' lente ma
mantengono lo stesso feeling oscuro e inquietante che pervade il disco.
"Hierarchy 1999" si apre con una delle canzoni piu' violente e intransigenti
che gli Handful of hate abbiano mai scritto, ovvero "The XI wings of death".
Una canzone questa che ben riassume lo stile del gruppo, con riff veloci e
taglienti e un drumming notevolmente sostenuto, inoltre la voce del cantante
Nicola, sembra davvero provenire dal piu' profondo degli inferi,
sprigionando un feeling davvero malvagio da far raggelare il corpo. Sullo
stesso piano si collocano "Disparity" e "Fleshcrawling Blasphemy", song
dall'impatto notevole e immediato che fanno comprendere in pieno quelle che
sono le intenzioni del gruppo, ovvero annientare le nostre misere esistenze con
la violenza delle loro canzoni. Davvero buona la produzione che mette in
risalto ogni singolo strumento, rendendo piacevole l'ascolto. Degna di
attenzione risulta essere "Fleshcrawling Blasphemy", una delle canzoni che piu' ho
apprezzato del disco, davvero intensa e coinvolgente nella sua breve durata.
Segue subito dopo "Stiffed into Extremism" e come sempre ci troviamo di
fronte ad un concentrato di pura violenza , con delle parti piu' lente che non fanno
altro che intensificare le parti piu' estreme.
Va inoltre sottolineata la grande prova offerta dai due axeman in questa
occasione, creando trame chitarristiche che prendono immediatamente
l'attenzione dell'ascoltatore. A questo punto arriva il momento di quello
che considero il "must" dell'album, ovvero "The slaughter of the Slave-Gods". La canzone piu'
coinvolgente, il manifesto dell'efferratezza sonora del gruppo e non solo a
livello musicale ma anche a concettuale. Devastanti accelerazioni si
susseguono a parti piu' lente e oscure, con il devastante drumming di
Gionata posto ben in evidenza. Le segue "Scars of Damnation"
un'altra fra le canzoni migliori, che come sempre si presenta con una
velocita' compositiva senza eguali. Quindi il disco scorre via senza grossi
sussulti fino ad arrivare a "Submission (The Fine Art of Sodom) e alla
conclusiva, devastante "The Rise of Abomination". Con "Submission" ci
troviamo di fronte ad una song inquietante, basata su di un
mid-tempo e che trova nello screaming del cantante il suo fulcro. Non
mancano comunque piacevoli sorprese come la
accelerazione finale, che ci annuncia l'arrivo di "The Rise of Abomination"
degna conclusione di un disco strabordante convinzione e cattiveria.